
Ieri in Senato è stato il momento di Giorgio Napolitano. Chi, nelle aule e fuori, attendeva un soccorso rosso dal vecchio dirigente, mai pentito, del Partito Comunista Italiano per fermare la corsa verso il voto definitivo sulla riforma della legge elettorale è rimasto deluso. L’ex Presidente della Repubblica si allinea alle disposizioni della maggioranza votando la fiducia posta dal Governo sul testo del disegno di legge.
Nessun colpo di scena, dunque. Ciononostante, Napolitano non ha rinunciato, nel suo intervento di mezzodì, all’ultima dose di veleno da inoculare in un dibattito parlamentare tutt’altro che sereno. Il senatore emerito la prende alla larga ponendo in forma amletica il dilemma tra le ragioni della “decisione” che contraddistinguono l’agire nella categoria del “politico” e il diritto fondamentale, in una democrazia parlamentare, a non vedere compressi gli spazi di discussione garantiti ai rappresentanti del popolo. Un interrogativo aulico lasciato astutamente in sospeso per fare spazio a un non-detto che vale molto più di un fiume di parole.
Come a dire: se ci fossi stato ancora io a dare le carte dal Quirinale non avrei consentito al Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, di forzare la mano dell’organismo legislativo ricorrendo all’arma atomica della fiducia. Già, perché lasciare alle Aule dei due rami del Parlamento mano libera sulla costruzione di una legge elettorale condivisa (da chi?) avrebbe consentito a Napolitano di gestire, mediante una collaudata moral suasion, differenti spazi di manovra per piegare il risultato alla sua strategia che, nel tempo, non ha mai subito pause o deviazioni: danneggiare, fino alla disarticolazione, il centrodestra. Perché questo è stato il chiodo fisso del capobastone comunista: combattere con ogni mezzo il nemico individuato nel profilo antropologico dell’odiato “Cavaliere” Berlusconi.
Stolti gli altri della parte avversa che - colonnelli, delfini, aspiranti e promessi - negli anni, non l’hanno capito e si sono prestati ai suoi giochi sottilmente perversi. Patetiche figure di burattini mosse attraverso i fili invisibili dell’ambizione personale e dell’arrivismo politico da un implacabile burattinaio e poi tramutati in tizzoni ardenti dalle fiamme del tradimento. Anche adesso che non è più in grado di muovere quei fili non perché sia fuori dal teatrino ma per sopraggiunta mancanza di burattini disponibili, Giorgio Napolitano non rinuncia al piacere della zampata da consegnare agli atti del Senato e agli annali della Storia. Se avesse potuto, se l’improvviso quanto scontato prorompere dello strumento della fiducia parlamentare non glielo avesse impedito, avrebbe fatto di tutto perché, per legge, s’impedisse ai leader di partito e di coalizione di appostare il proprio nome nei simboli elettorali.
In pratica, un divieto “contra civitatem” per fregare il centrodestra. Per l’ex capo dello Stato è tale la preoccupazione per gli effetti che avrebbe, e avrà, la presenza del nome “Berlusconi” sulle schede elettorali che volentieri l’avrebbe vietato d’imperio. Ancora una volta dobbiamo prendere atto della verità incontrovertibile su una sinistra che, a più di settant’anni dal cambio della forma dello Stato e dall’introduzione di principi di libertà nell’impianto costituzionale, non si rassegna a concepire una modalità democratica a fasi intermittenti: applicabile per gli amici, sospesa o interdetta quando si tratta dei nemici. Con Napolitano, la divaricazione schizofrenica tra l’enunciazione di alti proponimenti e la ricerca di speciosi utili di bottega, si fa materia viva e palpabile.
Da un lato egli invoca la necessità di produrre uno sforzo collettivo tra forze politiche ideologicamente distanti, simile a quello che vide la luce all’alba della Repubblica nell’immediatezza della fine del Secondo conflitto mondiale, per risalire la china della faziosità e per impedire che la democrazia stessa perda la ragione; dall’altro, prova a mettere i bastoni tra le ruote dell’avversario perché questi, seppur voluto dalla maggioranza degli elettori, non possa vincere e, di conseguenza, non possa governare. Quale maggiore inganno proviene alla libera volontà dei cittadini se non da chi in nome della lotta alla faziosità se ne fa campione?
Comunque sia, la legge elettorale, il “Rosatellum bis”, salvo inopinati intoppi oggi vedrà la luce. E per stare ai claim di maggiore successo, al posto del fortunatissimo “Meno male che Silvio c’è” un altro scala precipitosamente le vette della classifica dei più gettonati: “Meno male che lui, Giorgio, non c’è”.
Aggiornato il 25 ottobre 2017 alle ore 20:41