Referendum sull’autonomia, morte al burocratismo!

Signore perdonaci perché abbiamo peccato... d’ingenuità. A proposito dell’esito referendario della scorsa domenica, per un momento abbiamo coltivato l’illusione che i politici avessero compreso il messaggio inviato dagli elettori. Che le urne del Lombardo-Veneto potessero servire da lavacro delle cattive coscienze delle élite di questo Paese che portano sul groppone la responsabilità di aver ridotto l’Italia per ciò che è nella realtà: una nazione un tempo fertile, creativa, ingegnosa e produttiva diventata vecchia, povera, marginale.

Il voto per l’autonomia delle due regioni del Nord avrebbe dovuto dare la scossa, invece siamo al teatrino della cattiva politica. Meglio concentrarsi sulle beghe interne della Lega, che sforzarsi di capire il senso profondo di ciò che è accaduto domenica. Scusate la franchezza: ma chi se ne frega delle baruffe chiozzotte di Matteo Salvini e Roberto Maroni. La sinistra, renziana e non, dal canto suo è andata in tilt di fronte all’onda autonomista che adesso rischia di travolgerla. E invece di chiedersi il perché di ciò che potrebbe essere l’innesco di una rivoluzione silenziosa, la butta in caciara. Come al solito. È proprio vero: ascoltare le ragioni altrui è un esercizio troppo impegnativo per un’ideologia affetta da protagonismo egemone. I cittadini che si sono espressi per godere di maggiore autonomia funzionale e finanziaria rispetto allo Stato centrale hanno messo sul banco degli imputati i due agenti patogeni che minano alle radici il benessere della nazione: la troppa burocrazia e le troppe tasse. Sono questi i principali mali che stanno corrodendo il tessuto connettivo della società italiana.

Come altrimenti spiegare il fatto che un Paese universalmente riconosciuto al top per le bellezze naturali e paesaggistiche, per la grandezza del patrimonio artistico-culturale, per la qualità dell’enogastronomia, per la bellezza e la genialità della manifattura, per l’efficienza e la professionalità delle Forze Armate, sia ridotto con le toppe sul fondoschiena e che non riesca a trovare la forza non semplicemente di riprendersi ma di volare in tutte le classifiche di qualità come eccellenza planetaria? Siamo nel Terzo millennio e discutiamo ancora di forestali siculi e calabresi in soprannumero? Ma di cosa parliamo? Allora dov’è il problema? Questa politica non sa, o non vuole, prendere il toro per le corna. Cioè, non trova la forza di arrestare la superfetazione dell’ordinamento giuridico sul quale si erge il potere del ceto burocratico. Un apparato tentacolare di “funzionari”  che quotidianamente stringono la morsa sulla comunità attraverso l’esercizio di un’egemonia sostanziale. Si tratta di un esercito di lavoratori che sarebbero uguali agli altri se non fosse per il fatto che hanno una caratteristica che li differenzia: essi hanno autorità. Una burocrazia che si fa “burocratismo” quando persegue la perfezione razionale dei suoi ingranaggi disinteressandosi totalmente dei criteri d’efficienza ai quali rispondere in un contesto democratico. Provate ad aprire un’attività commerciale non diciamo in giorni, come accade in buona parte d’Europa, ma in mesi. Se ci riuscite siete dei miracolati. La lotta quotidiana che un imprenditore combatte per fare il suo mestiere è contro quintali di scartoffie che hanno il medesimo effetto compressivo di una camicia di forza. Pareri, decreti, ordinanze, autorizzazioni, concessioni, licenze, nulla-osta, certificati, attestati, visti: una montagna di carte che può schiacciare anche il più coriaceo istinto creativo. Un potere diffuso di manipolazione delle norme che agisce sulla realtà meglio di qualunque altro potere.

Vi è mai capitato di scoprire che una disposizione normativa potesse valere in un modo per un’impresa posizionata su una strada e valere al contrario per un’altra impresa collocata sul marciapiede opposto per il solo fatto che le aziende cadono in due distinte giurisdizioni municipali? È naturale che per mantenere in vita un simile Moloch occorra nutrirlo con i denari drenati attraverso l’imposizione fiscale. Tutto torna in un mortale circolo vizioso. Abbiamo una tassazione insopportabile perché dobbiamo far fronte a un costo abnorme della macchina dello Stato. Una parte di essa va rasa al suolo se si vuole riportare la barca Italia sulla linea di galleggiamento. Il voto di domenica è stato un modo per dire: cominciamo da qui. E la politica? Parla d’altro, di retroscena e dietrologie che non interessano a nessuno. Ancora una volta questi politici hanno capito tutto. Come sempre.

Aggiornato il 24 ottobre 2017 alle ore 20:45