
Dalle 23 di ieri la storia si è rimessa in cammino. L’affluenza al voto referendario per l’autonomia in Lombardia e Veneto è stata significativa. Qualunque cosa accada d’ora in avanti, comunque l’attuale Governo nazionale e quelli che gli succederanno vorranno posizionarsi sull’applicazione dell’articolo 116 della Costituzione, resta il fatto che dovranno tenere conto della volontà popolare così massicciamente manifestatasi.
I numeri della partecipazione: in Veneto ha votato il 57,2 per cento degli aventi diritto. I “Sì” sono stati 2.317.923, i “No” 43.938; le schede bianche 5.165, le schede nulle 5.865 e 9 quelle contestate. In Lombardia sui circa 7 milioni e 900mila aventi diritto l’affluenza è stata del 37,07 per cento (dato provvisorio). Il “Sì” raccoglie 3 milioni di voti, il “No” si attesta al 3,9 per cento. I governatori delle Regioni interessate al voto hanno ben diritto di gioire per il risultato, anche se Luca Zaia ha qualche ragione in più di soddisfazione rispetto al suo omologo lombardo Roberto Maroni per il quale il risultato è stato positivo ma non all’altezza delle attese della vigilia. Molto si dovrà fare nei prossimi giorni affinché la macchina del negoziato si metta in moto. Fortuna che non siamo in Spagna e questa non è la levata di scudi per la secessione senza capo né coda della Catalogna. Tuttavia, anche da noi vi sono cose che andrebbero evitate. A cominciare da una lettura dei risultati in chiave riduttivamente politicista. Non è stata la vittoria della Lega e tanto meno di una certa Lega della prima ora che avrebbe tentato con il referendum di affossare il progetto sovranista del suo leader, Matteo Salvini. Certamente il partito della Padania ha avuto un ruolo importante nel promuovere e nel sostenere l’iniziativa referendaria. Ma la determinazione che ha spinto tanta gente a recarsi alle urne nella consapevolezza di esprimere un voto che non avrebbe sortito immediati effetti giuridicamente rilevanti è stata assolutamente trasversale agli orientamenti partitici dell’elettorato.
Inoltre, il bisogno di autonomia non è rappresentabile come una polluzione onanistica, sintomo di una patologia del benessere del Nord opulento. Al contrario, ciò che ha motivato maggiormente la partecipazione è stato lo sfilacciamento progressivo del tessuto sociale prodotto dalla diffusione di una globalizzazione non debitamente governata. La voce che si è levata dalle urne lombardo-venete è stata quella di un ceto medio impoverito dalla crisi economica, frustrata dalla soffocante burocrazia statalista che ne tarpa le ali, infuriata con una classe politica autoreferenziale la quale continua a raccontarsi un Paese che non esiste tralasciando di considerare a dovere la spietata crudezza della quotidianità della gente comune. Il segnale inviato è comunque in positivo. Alla protesta fine a se stessa l’opinione pubblica, che è molto più avveduta di quanto gli establishment e le élite di potere pensino, ha indicato la via per l’uscita pacifica e costruttiva dall’impasse nel quale è stagnato il sistema-Paese. Con la richiesta di maggiore autonomia funzionale si riduce la distanza tra cittadino e istituzioni trasferendo in capo al governo del territorio competenze che lo Stato centrale svolge con difficoltà e maggiori oneri, quando le svolge.
Come non apprezzare la correzione di rotta dal basso che somiglia molto a una reazione autoimmunitaria di un corpo sociale il quale reagisce al diffondersi del virus che ne mina la stabilità. Nelle urne di domenica è stata depositata una risposta critica al modello di Unione europea che è stato imboccato da Maastricht in poi. Un’entità sovraordinata agli Stati nazionali, che ne assorbe alcune funzioni sovrane diminuendone il peso presso i propri cittadini, per restare in equilibrio necessita di bilanciamenti efficaci. Cosicché i regionalismi si inseriscono nelle dinamiche dei rapporti inter-istituzionali quali componenti primarie del meccanismo di un check and balance in grado di assicurare la tenuta della coesione sociale a tutti i livelli. Dalle vallate alpine alle stanze di Bruxelles passando per i palazzi delle capitali nazionali.
Se Veneto e Lombardia hanno funzionato da apripista, adesso tocca estendere il modello dell’autonomia alle altre regioni. Anche al Sud, dove l’idea di dovercela fare da soli spaventa soltanto le classi dirigenti della politica locale che, storicamente, si sono distinte per la bassa qualità del personale e per la vocazione a pensare lo Stato nazionale come una gigantesca coscia di vitello da spolpare. Se questa è la sfida del nostro tempo storico bisogna affrontarla con gli strumenti e lo spirito giusto. E le sfide si possono vincere o perdere, tertium non datur. Facciamocene una ragione.
Aggiornato il 23 ottobre 2017 alle ore 21:35