Sul Jobs Act Renzi se la canta e se la suona

Le ultime rilevazioni Istat sugli andamenti del mercato del lavoro sono la tavola da surf con la quale il leader del Partito Democratico tenta di cavalcare l’onda del consenso. La recente pubblicazione dell’istituto demografico sull’occupazione nel mese di luglio dà conto di un trend positivo. Crescono di 59mila unità gli occupati rispetto al precedente mese di giugno e si conferma la tendenza positiva del trimestre precedente nella misura del +0,3 per cento. Quanto basta per far dire a Matteo Renzi che è tutto merito del Jobs Act. C’è da scommettere che questa sarà l’equazione della prossima campagna elettorale targata Pd. Le opposizioni, dal canto loro, insorgono contestando in radice la lettura ottimistica delle rilevazioni dell’Istat. Chi ha ragione? Tutti e nessuno. Ciascuno presenta uno spicchio di verità per cui è corretto asserire che tutti abbiano una parte di ragione. Tuttavia, il problema sta nel differente ordine di grandezza di quei spicchi di verità. Per altro verso, nessuno ha ragione quando si pretende di affidare ai numeri la composizione della linea politica.

Sarebbe salutare se si evitasse la strumentalizzazione dei dati lasciandoli fuori dalla propaganda spicciola. Ma è illusorio crederlo. Interessa di più portare l’acqua al proprio mulino magari deviando il corso del fiume piuttosto che guardare in faccia la realtà. Matteo Renzi esulta perché il dato di crescita dell’occupazione è inconfutabile, ma trascura di dire che altrettanto reale è l’aumento del tasso di disoccupazione rilevato nell’analisi di periodo. “Dopo il calo di giugno, la stima delle persone in cerca di occupazione a luglio cresce del 2,1% (+61mila)”. Lo dice l’Istat. Come dice anche che per quanto riguarda gli inattivi tra i 15 e 64 anni, in luglio c’è stato un calo (-115mila). Comunque, la media trimestrale conferma un complessivo migliore andamento con un incremento degli occupati a fronte di una lieve diminuzione dei disoccupati e degli inattivi. Questi i dati di sintesi, ma se si analizzano i sottoinsiemi si comprende che la tanto enfatizzata rivoluzione del Jobs Act è una patacca che luccica. La disaggregazione della stima per classi d’età mostra chiaramente che la crescita occupazionale non è distribuita egualmente su tutte le fasce generazionali. Aumenta nella classe d’età 15-24 anni e tra gli over 50; resta ferma tra i 25-34enni; diminuisce sensibilmente nella fascia dei 35-49 anni.

Ora, se per i giovanissimi è intuibile che abbiano funzionato gli incentivi alle assunzioni, per gli over 50 l’incremento statistico è dovuto in larga parte alle ricadute della riforma “Fornero” sull’allungamento dell’età lavorativa. Risultato: non si crea nuova occupazione ma si tiene alla corda quella che c’è. Dovrebbe preoccupare la crisi della classe di mezz’età che rischia di espellere dal mondo del lavoro una generazione d’italiani non facilmente convertibili in nuovi profili lavorativi perché privi delle necessarie skills (abilità-conoscenze-competenze). In realtà questi numeri rappresentano soltanto la pagliuzza. C’è la trave che si continua a ignorare. L’enormità del dato, di là dalle oscillazioni dei decimali, sta nella consistenza numerica dei nostri occupati. Oggi in Italia lavorano 23 milioni 63mila persone. Troppo poche se si considera che al 1 gennaio di quest’anno siamo in 60.589.445. Di questi, l’8,3 per cento sono stranieri. Su tre residenti in Italia soltanto uno lavora. Ma con questo rapporto si va a sbattere. Si aggiunga che in quell’universo asfittico di occupati non tutto è lavoro permanente. Cinque milioni 340mila sono i lavoratori indipendenti e 2 milioni 735mila sono i contratti a termine di dipendenti, che in Italia non vuol dire flessibilità virtuosa sul modello anglosassone ma disperante precarietà se non odioso sfruttamento della manodopera. In particolare di quella intellettuale e mediamente qualificata. I numeri, come si sa, sono testardi. Non mentono e non si piegano alla propaganda del tribuno di turno.

Matteo Renzi dovrà usare cautela a battere il tasto del Jobs Act perché gli si potrebbe ritorcere contro. E le opposizioni evitino di rincorrere l’avversario polemizzando sul decimale di punto, ma aprano una seria riflessione sullo sviluppo complessivo del sistema produttivo italiano. Perché il problema è tutto lì: di quale crescita ha bisogno l’Italia per salvare la capra della stabilità economico-sociale e i cavoli (amarissimi) del ménage delle persone comuni e delle famiglie?

Aggiornato il 05 settembre 2017 alle ore 21:26