M5S: un fallimento scritto nelle cose

Prendo spunto dall’ottimo editoriale del nostro direttore, “A Roma il fallimento degli incompetenti”, per aggiungere una breve riflessione sul Movimento Cinque Stelle.

In estrema sintesi, il citato fallimento capitolino messo in evidenza da Arturo Diaconale rappresenta l’inevitabile conseguenza di una sorta di avventurismo populista il quale, lungi dall’aver compreso la natura dei problemi sistemici del Paese, pretende di creare un utopistico regno della felicità collettiva addirittura ampliando ciò che rappresenta la madre di tutti gli italici guai: l’intervento pubblico a ogni livello.

In sostanza, i grillini ripropongono in modo piuttosto caciottaro l’antica idea del cosiddetto “Governo migliore”, ma non più diretto da una classe politica professionale, bensì da una nuova schiatta di immacolati amministratori provenienti dai cittadini comuni. In modo molto rozzo ed elementare, si tratta di una antica illusione rivoluzionaria che nel corso della tragica era staliniana trasformò il mito dell’“uomo nuovo” nella creazione di una casta di ottusi e spietati burocrati di Stato - da qualcuno definiti “idioti di tipo nuovo” - che gestirono col terrore una condizione economica e sociale spaventosa.

In realtà, soprattutto dopo molti decenni di fallimentare collettivismo strisciante, il buon senso scaturito dall’esperienza dovrebbe consigliare una linea opposta a quella iper-interventista dei grillini. Preso atto che l’eccessiva presenza della mano pubblica in ogni ambito, centrato su livelli di redistribuzione insostenibili, ha determinato condizioni incompatibili per lo sviluppo italiano, non esiste alcuna alternativa a una necessaria riduzione di tale presenza, determinando un graduale dimagrimento del sistema pubblico nel suo complesso. Ciò significa, venendo al caso di scuola della Capitale, che la giunta comunale guidata dall’inconsistente Virginia Raggi avrebbe dovuto lavorare nella direzione di un graduale alleggerimento dei carrozzoni clientelari che hanno di fatto mandato in bancarotta il Comune di Roma.

In particolare, Atac, Acea e lo sterminato apparato amministrativo del Comune medesimo avrebbero bisogno di ben altri interventi rispetto alla montagna di chiacchiere di circostanza espresse in merito dalla sindaca Raggi. Pure i sassi hanno compreso che solo privatizzando e liberalizzando alcuni importanti servizi pubblici locali è possibile ridare ossigeno ad una Capitale distrutta dai debiti e dalle inefficienze. Ma ciò andrebbe contro il dogma grillesco del citato governo migliore, che soprattutto a Roma fa rima con la famosissima legge del menga, secondo cui chi lo ha in tasca se lo tenga, ovvero i cittadini romani.

Aggiornato il 04 agosto 2017 alle ore 21:15