
Le primarie del Partito Democratico sono chiuse, ma ancora si litiga sui voti ottenuti dai tre candidati. Non è questione di puntiglio, ma di sostanza. Si lotta fino all’ultimo decimale perché da quei numeretti dipenderà il peso specifico che ciascuna corrente del partito potrà vantare non tanto nella composizione della linea politica, che nel tempo storico del personalismo degli uomini-soli-al-comando, frega niente a nessuno quanto nella partecipazione alla scelta delle candidature alle prossime elezioni amministrative e parlamentari. È quello, infatti, lo scoglio sul quale rischiano d’infrangersi i sogni di parecchi politici di seconda e terza fila.
Ora, Matteo Renzi ha vinto e questo nessuno lo mette in dubbio. Ma in quale misura? E, soprattutto, in quale misura hanno perso gli altri? I dati resi noti dalla commissione elettorale del Pd assegnano al vincitore una percentuale che oscilla intorno al 70 per cento del milione e ottocentomila votanti. Tanta roba, ma desolatamente meno rispetto ai record delle passate primarie. Tuttavia, si può dire che Renzi abbia il partito nelle mani ma, a causa di quel fastidioso 30 per cento che residua, dovrà chiamare al tavolo della trattativa sulle liste anche Andrea Orlando e Michele Emiliano. Costoro hanno perso, ma non allo stesso modo. Mentre il diafano ministro della Giustizia esce dal confronto con le ossa rotte, il “Brancaleone del Tavoliere” può dirsi comunque soddisfatto del 10,49 per cento conquistato. Perché? Il problema sta nella schiera dei supporters. Orlando aveva avuto dalla sua quasi per intero la vecchia guardia che non era emigrata al seguito della “Trimurti” del socialismo nostrano, Bersani-Speranza-D’Alema. Lo scarso 20 per cento ottenuto non è sufficiente a garantire la ricollocazione di tutti i suoi autorevoli sostenitori. Quando ci sarà da fare le liste e Renzi dirà ad Orlando di gestirsi la quota che gli spetta saranno dolori per scegliere chi salvare e chi sacrificare. Non c’è da stupirsi se qualcuno prenderà la strada dell’esilio e andrà a ingrossare le fila dei fuoriusciti.
Nessuno ammetterà di essere stato fatto fuori, piuttosto si evocheranno improvvise folgorazioni sulla via del nuovo Sol-dell’Avvenire che splende dalle parti di “Articolo 1”. Tutt’altra musica invece per Michele Emiliano. Prima che scoppiasse l’ambaradan del dopo-sconfitta referendaria, l’ex-magistrato era soltanto il governatore, un po’ rumoroso, di una regione del Mezzogiorno. Oggi è un protagonista politico di prima fascia. Ad accompagnarlo in questa lucida follia due personaggi di notorietà nazionale: gli onorevoli Francesco Boccia e Dario Ginefra: i “Dioscuri” accomunati da un curioso destino. Entrambi pugliesi, cinquantenni, con parentele coniugali nella sponda avversaria di Forza Italia. Emiliano avrà mani libere per progettare il futuro del suo gruppo. Intanto, si prepara a gestire quel 10 per cento che, per lui esordiente sulla scena nazionale, vale oro. Per certi versi la vicenda odierna dell’allegra brigata di Emiliano ricorda la storia della corrente autonomista di Pietro Nenni nel Partito Socialista Italiano degli anni Sessanta/Settanta del Novecento, prima dell’ascesa al vertice di Bettino Craxi. I “nenniani” erano una pattuglia piccola ma agguerrita per cui non c’era accordo unitario all’interno del partito se prima non si garantiva la presenza negli organigrammi di almeno un loro rappresentante. Per il “Re di Puglia” funzionerà allo stesso modo. Da Pordenone a Gela, da Verbania a Lampedusa il bilancino delle candidature dovrà pesare anche la “quota Emiliano”.
Se dunque a Renzi il 70 per cento consentirà di star comodo ma non di scialare nella gratificazione degli amici e per Orlando il margine consentitogli si trasformerà nel suo peggiore incubo, per Emiliano sarà una gioia chiamare al telefono qualche iscritto del più sperduto circolo di partito ai confini d’Italia e porgli la fatidica offerta: “Se stai con me, ti candido”. In fondo, è anche così che si crea una classe dirigente.
Aggiornato il 04 maggio 2017 alle ore 17:56