
Concludendo qui il mio articolo sulla “Identità dell’antisinistra” il 6 ottobre scorso, scrivevo: “Oggi l’identità del centrodestra non può consistere nell’essere antisinistra, allo stesso modo in cui ieri l’identità poteva essere definita dall’anticomunismo, perché la sinistra di adesso non è comparabile con la sinistra di allora, e sarebbe anche il momento di smetterla d’identificare il centrodestra con il moderatismo, che, politicamente parlando, non so cosa sia. Infine, sussiste la questione del nome, che non è di poco conto. Il centrodestra ha tre o quattro nomi, l’un contro l’altro armati già come nomi in sé. Il centrosinistra è un passo avanti perché sostanzialmente s’identifica nel Pd. Il centrodestra ha bisogno pur’esso di un solo nome, tanto generico quanto evocativo, un’etichetta da incollare sulla bottiglia vuota, da riempire volta a volta con contenuti propri, specifici, adattati alle esigenze congiunturali ed elettorali”.
Cerco ora di spiegarmi, circa i nomi e i contenuti. Silvio Berlusconi tentò di unificare il centrodestra sotto un nome in comune ed un comune denominatore, formale e sostanziale. Etichetta e sostanza facevano riferimento alla libertà. Non è andata bene, per tanti motivi ben noti. Ma il motivo fondamentale, secondo me, è stato che la libertà è quella cosa che intendono i liberali oppure non è; con l’aggravante che i liberali la intendono pure loro stessi in due modi diversi, alla Roosevelt/Obama/Keynes oppure alla Reagan/Thatcher/Hayek, per indicare grossolanamente, con la storia recente, la grande divisione politica e dottrinaria tra la “libertà di” e la “libertà da”. Caduto il comunismo reale, la “libertà di” è andata a nozze con la sinistra cosiddetta riformatrice, progressista, socialdemocratica, eccetera, cioè una miscela di interventismo, assistenzialismo, spesa a debito, giustizialismo fiscale e sociale, eccetera. Un centrodestra che avesse l’ideologia della “libertà di” non sarebbe altro che un centrosinistra con la carta d’identità truccata, un partito in gara con un partito gemello ed entrambi in concorrenza sullo stesso mercato con la stessa merce dozzinale. Purtroppo una larga, se non addirittura maggioritaria, fetta dell’area di centrodestra (intesa e identificata come antisinistra) non differisce dalla quasi totalità del centrosinistra, quanto a questo essenziale carattere: l’uno e l’altro pescano nella stessa vasca con la stessa canna e la stessa esca, sicché è solo la bravura del pescatore che può fare la differenza per quantità del pescato, non per qualità del pesce.
A chi e a cosa servirebbe un centrodestra fotocopia del centrosinistra se non a fare la stessa politica e dare occupazione ai sosia? Il centrodestra dovrebbe competere con il centrosinistra per l’analisi dei problemi e per le proposte di soluzione. Tutto nella chiarezza e nella coerenza, mentre i partiti che oggi si richiamano allo schieramento di centrodestra sono contraddittori in sé e “inter se”. Per esempio, non distinguono tra le “due libertà” oppure non ne abbracciano nessuna, in molti campi. E dunque, se non fosse (non è in tutto e per tutto) la libertà il blasone del centrodestra, quale dovrebbe esserne lo stemma riconoscibile? Adesso va di moda il populismo, una cosa che non si sa cosa sia ma piace a molti perché la parola è popolare. Il populismo, nella versione peggiore, è assimilabile ad un camuffamento dell’estremismo demagogico; nella versione migliore, al qualunquismo gattopardesco. In entrambi i casi, non costituisce una bussola per orientare governanti degni del nome, che sviluppano i principi liberali con lungimiranza di statisti nell’interesse non elettoralistico dei governati.
Il centrodestra dovrebbe essere il partito di Cavour e di De Gasperi, di Mazzini e di Croce, per capirci, cioè: risorgimentale, nazionale, liberale, morale. Non può richiamarsi all’Italia nel pensiero, rifacendosi all’anti-Italia nell’azione. E qui sorge il problema del nome, che ha importanza, non dico come il contenuto, ma quasi. Il nome del partito di centrodestra non deve contenere la parola libertà né riferirsi al liberalismo, sebbene libertà e liberalismo ne debbano essere l’asse portante. In ciò il centrosinistra ha saputo scegliere più che bene: “Partito Democratico” non solo suggerisce una cosa importante, ma pure sufficientemente vaga da attagliarsi a molte soluzioni, considerando che l’aggettivo democratico viene associato, anche nelle espressioni improprie, a persone e scopi commendevoli. Il centrodestra non ha ancora saputo trovare un nome altrettanto evocativo. Gl’Italiani di centrodestra, avvelenati da decenni di propaganda sinistra e di sinistra, non amano il termine “conservatore” perché vi riconnettono significati negativi. Né potrebbero usare un altro termine astrattamente efficace ma storicamente adoperato senza particolare successo come “repubblicano”. Finché non sarà trovato o inventato il nome capace di contenere quell’idea e le altre compatibili; un nome che sappia evocare senza qualificare il contenuto specifico; un nome indicativo di un mondo ideologico e politico attrattivo nella sua peculiarità e tuttavia adattabile per la sua flessibilità, anche il centrodestra come “partito” stenterà a prendere la forma di soggetto individuale se non unico, dopo la temperie irripetibile del Berlusconi anticomunista in nome della rivoluzione liberale, irrealizzata non, come amano credere, per le mene degli antiberlusconiani, ma per la natura della coalizione e per colpa dei berlusconiani coalizzati. Resta che Berlusconi, asse dei due Poli al Nord e al Sud, salvò l’Italia dai comunisti dell’epoca e costoro da se stessi, come prova irrefutabilmente la loro successiva evoluzione, appunto democratica, fino ad oggi che il Pd ha potuto vincere soltanto perché allora perse contro Berlusconi. Al momento, quel nome a me non viene in mente. Non saprei trovarlo. Dunque, per chi ci crede, la caccia è aperta.
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 19:29