La lezione dell’elezione di Donald Trump

Shock per l’elezione di Donald Trump a Presidente della più grande democrazia del mondo? È immaginabile che alla fine l’establishment del Partito Repubblicano imporrà alcune linee di politica interna ed estera meno scioccanti rispetto alle premesse roboanti della campagna elettorale. Tuttavia lo shock resta, per i contenuti, ma anche per il modo con cui Trump ha conquistato 59 milioni di elettori americani e 290 grandi elettori.

Aveva contro il 95 per cento della stampa americana, l’intero mondo imprenditoriale e della finanza, le cancellerie europee, i premi Nobel dell’economia, il Partito Democratico e quasi tutto l’apparato del Partito Repubblicano, le star del cinema, della musica, dell’informazione e dello spettacolo. Ciò nonostante Trump diventa Presidente degli Stati Uniti, contro un apparato mediatico ostile, di dimensioni formidabili. È la democrazia.

Il fenomeno è sorprendente. Mostra evidenti analogie con la vicenda italiana e i sussulti politici in atto in tutte le democrazie europee. Merita di essere scrutato. Trump cavalca i temi del nazionalismo e del protezionismo, nel solco della destra tradizionale. Tuttavia, le violenti prese di posizione contro le migrazioni paiono dettate, più che da ideologia xenofoba, da ragioni di opportunismo economico ed elettorale. Nazionalismo e protezionismo servono infatti a marcare una scelta di campo, contro il progressivo impoverimento dei ceti medio bassi, causato dalla globalizzazione selvaggia e dalle migrazioni. Sono il salvagente protettivo di una società americana in larga parte impoverita e insicura.

I 59 milioni di americani sostenitori di Trump contro i 59 milioni di Clinton segnano visivamente la spaccatura della società americana: per metà libertaria, permissiva, mondialista, multiculturalista, progressista, e per metà nazionalista e protezionista. I 59 milioni di clintoniani sono quelli che accettano di vivere nella società “liquida” contemporanea, decomposta in una moltitudine di individui soli ed autosufficienti, che non hanno paura di competere con il resto del mondo; anzi, hanno l’ambizione di condizionare il mondo. I 59 milioni di trumpiani hanno intrapreso invece un’altra strada, più istintiva, difensiva, meno permissiva e più protettiva, contro le paure del mondo. Quest’ultima è vincente, perché la globalizzazione ha messo in discussione quel po’ di certezze che finora tenevano unite le società liberali e solidali (socialiste). Tocqueville scriveva che per stare assieme una comunità di persone deve poter contare su un minimo di fattori di comunanza. “Si ha una società - scriveva - solo quando gli uomini considerano un gran numero di oggetti sotto lo stesso aspetto; quando hanno la stessa opinione riguardo a un gran numero di soggetti; quando gli stessi fatti fanno nascere in loro eguali impressioni ed eguali pensieri”.

Invece, le società laiche, liberali e libertarie sembrano non essere più in grado di offrire quel minimo grado di coesione che rassicura e unisce. La ribellione americana sta già avvenendo anche da noi. Le elezioni americane insegnano che non servono mezze risposte. Serve la consapevolezza che la crisi è di sistema, che merita soluzioni di sistema. Serve cioè una vera e propria rivoluzione, a partire dall’applicazione di metodi innovativi per l’esercizio della democrazia. Per i 59 milioni di elettori di Trump il linguaggio aggressivo, l’eccesso, anche la bugia, danno prova che la crisi richiede interventi diversi, “sovversivi”. La loro scelta può essere rozza quanto si vuole, ma è stata vincente.

In un contesto di paura e povertà, del resto, serve poco contrapporre competenza a ignoranza, responsabilità a improvvisazione, cultura a incultura, universalismo a provincialismo, antirazzismo a razzismo. Servono soprattutto ricette capaci di far sperare. I rischi del mondo globale sono percepiti con la medesima intensità, anche in Italia e in Europa. Anche da noi hanno cambiato le regole della convivenza. Anche da noi, a causa degli effetti indotti dalla globalizzazione, la contrapposizione non è più tra destra e sinistra. Per questo vincerà chi, a prescindere dallo schematismo destra-sinistra, sarà in grado di manifestare un’identità (anche povera) pur che sia. Perde chi non ce l’ha, o ce l’ha sbiadita. La politica fatta di accordi segreti, trasformismi, sgambetti, intrighi, voltafaccia, furbizie, non ha storia. È finito il tempo delle partitocrazie. Le elezioni non si vincono più “al centro”. È finito il tempo delle ambiguità, delle ipocrisie, del linguaggio cifrato tra i partiti. Trump dimostra che si può instaurare un fruttuoso dialogo con gli elettori anche senza avere un partito alle spalle. Del resto, il tycoon ha vinto contro l’intero apparato del Partito Repubblicano.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:04