Trump e la rivincita della Democrazia

La vittoria di Donald Trump ha fatto venire allo scoperto la natura autoritaria delle élite occidentali. Lo sconcerto per l’esito indesiderato delle elezioni negli Stati Uniti tradisce l’ostilità verso la democrazia basata sul suffragio universale. L’establishment occidentale ha puntato l’indice contro lo stile aggressivo e di rottura di Donald Trump, ma il vero obiettivo era quell’insopportabile ingombro che si chiama volontà popolare. Non è “The Donald” in sé lo scandalo, piuttosto l’eresia sta nell’ammettere che il popolo possa desiderare qualcosa di diverso da ciò che pensano e progettano le élite.

C’è poco da fare: per il pensiero “evoluto” del progressismo occidentale i comuni cittadini non sono ontologicamente in grado di badare a se stessi e il fatto che gli sia consentito di scegliere il proprio destino è qualcosa di confliggente con il principio morale del bene assoluto. Per questa ragione si vorrebbe mandare a processo l’istituto del suffragio universale per la sua provata pericolosità. Perché la sua storia “... non è sempre stata una storia di avanzamento”, per dirla con Giorgio Napolitano. L’ex Presidente della Repubblica, infatti, visibilmente contrariato dall’esito elettorale americano, paventa il pericolo di una pulsione irrazionale delle masse che verrebbe innescata attraverso l’esercizio del libero voto. Per Napolitano le urne non sarebbero immuni dal rischio di ondate demagogiche. Come a dire: anche Adolf Hitler prese il potere attraverso libere elezioni. La posizione di Napolitano rispecchia fedelmente la filosofia-guida di quell’élite progressista che tiranneggia l’Occidente sviluppato dalla fine del secolo scorso. Può indignare ma non deve sorprendere. È la coerente evoluzione di una teoria del potere che ha avuto modo in più occasioni nel recente passato di essere verificata nella prassi. In particolare in Italia, che è stata un eccellente terreno di coltura per la sperimentazione dei nuovi modelli di governance depurati del fattore contaminante della volontà popolare.

La “defenestrazione” di Silvio Berlusconi nel 2011, la guerra combattuta a colpi di spread, l’attivismo politico-istituzionale volto a favorire le famigerate “soluzioni tecniche”, l’assegnazione dei successivi governi alla tutela dei poteri transnazionali generati dalla globalizzazione, rappresentano l’inveramento di un’idea di società la quale, pur mantenendo il simulacro della forma democratica, pretende di estinguere ogni vincolo di subordinazione al legittimo titolare della sovranità. È la rottura del patto costitutivo delle società democratiche il vero target messo nel mirino dalle nuove élite. Le Costituzioni degli Stati novecenteschi, sopravvissuti al secondo conflitto mondiale, hanno virato, in maggioranza, verso l’attribuzione al popolo della decisione ultima sullo stato d’eccezione. Nel tempo della crisi della dimensione egemonica degli Stati nazionali abbiamo invece assistito al reiterato tentativo di rendere ininfluente la volontà del popolo-corpo elettorale. Questa operazione di delegittimazione della componente numericamente maggioritaria delle società avanzate sarebbe proseguita indisturbata se quell’onda di rigetto, colta con sgomento dallo stesso Napolitano, non avesse trovato il modo di affiorare. Com’è accaduto nei giorni scorsi in America.

Le doti individuali del candidato Trump cedono il passo di fronte all’elemento prioritario della manifestazione di volontà del corpo elettorale. Anzi, l’apparente carenza soggettiva del neo eletto rafforza e non indebolisce l’atto d’imperio del sovrano che nella forma democratica di Stato è il popolo. Alla luce di quanto è accaduto non c’è nulla di cui preoccuparsi come invece vorrebbero Napolitano e le élite che si sentono minacciate. Piuttosto, bisogna augurarsi che l’onda lunga della restaurazione democratica non perda di potenza ma, dagli States, giunga a travolgere le odierne governance del Vecchio Continente. Quelle sì sempre più autoritarie e autoreferenziali.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:01