
Il nuovo “paradigma trumpiano” insegna qualcosa alla destra italiana. Di là dai contenuti dell’offerta politica proposta da Trump all’elettorato americano, c’è una metodologia della sua discesa in campo che merita di essere analizzata. Un aspetto poco considerato della sua performance riguarda la “sorpresa” sortita nell’essere stato il primo candidato della storia delle presidenziali americane a vincere alla prima esperienza in politica. Interrogarsi su questa “anomalia” aiuterebbe a comprendere molto di ciò che di rivoluzionario è accaduto negli “States” lo scorso martedì.
Cominciamo col dire che “The Donald” ha smentito tutti i sondaggi che lo davano perdente. Ha combattuto infischiandosene dei numeri e delle curve dei diagrammi. Istogrammi, grafici a barre, a torta, a bolle sono suggestivi perché provano a misurare la realtà, ma non sono la realtà. Trump lo ha capito e ha tirato dritto. Potrebbero dire altrettanto i dirigenti politici del nostro centrodestra? Quante volte è accaduto che sia mancato il coraggio di andare fino in fondo su questioni fondamentali per il bene del Paese perché i sondaggi lo sconsigliavano? Sarebbe salutare che, dopo l’8 novembre americano, si comprendesse della nocività di una politica affidata ai vaticini dei sondaggisti: costoro non sono più credibili degli aruspici dell’Antica Roma. Algoritmi e modelli matematici, applicati al “sentire” della politica, sfornano i polli di Trilussa, che non riempiono le pance della gente. Continuare a “leggere” la volontà popolare con le lenti deformanti delle analisi statistiche introduce a una dimensione che al più potrebbe aspirare ad essere verosimile ma non è vera.
C’è stata poi la questione dei social network. Donald Trump è apparso vecchio perché poco avvezzo ai nuovi linguaggi della comunicazione. Barack Obama lo ha sbeffeggiato per questa sua incapacità. Ma Trump ha vinto egualmente. Cosa ne deduciamo? Che è giunto il momento di darsi una regolata con la storiella del mondo virtuale dei social. Stare costantemente attaccati alla tastiera dei tablet e agli smartphone per “essere social” non rende nessuno maggiormente in sintonia con la vena pulsante della realtà: semmai ci si rincitrullisce a furia di messaggiare. La politica è ragionamento che non ci sta in 140 caratteri. Bisogna prendersi il disturbo di viverci dentro a questo sporco mondo per sperare di capirlo almeno un po’. Stare in mezzo alla gente: questa è la formula magica che consente di coglierne le istanze, affondando le mani nella carne viva dei bisogni vissuti e patiti dalle persone in carne ed ossa. Esiste una componente di fisicità nel processo politico, alla quale l’“inesperto” Trump si è perfettamente adeguato, che non può essere surrogata da forme artificiali di contatto. L’elettore vuole toccare, più che immaginare, la prossimità del suo rappresentante istituzionale. A questo riguardo la classe dirigente del centrodestra dovrebbe fare una seria autocritica. Per molti eletti è stato fin troppo comodo nascondersi dietro la figura totalizzante del leader. Ora, però, è tempo che ci si guadagni il pane consumando le suole delle scarpe. Andare tra la gente e prestarle ascolto potrà essere molto più istruttivo che cercare strapuntini in fumosi convegni tra “addetti ai lavori”. La stella polare è la compartecipazione. Bisogna spingere le persone a esprimersi, a dire la loro. Senza farsi maestri. Fa niente se la forma lessicale di chi si fa avanti non sia quella della “Crusca”, se le idee migliori dovranno essere estratte, maieuticamente, da litanie infarcite d’improperi e di smadonnamenti, come bauxite strappata alle cavità di una miniera. Quello che conta è mettersi in ascolto del Paese reale e dopo, solo dopo, sedersi a tavolino a scrivere programmi e a tracciare scenari.
Riuscirà il futuro centrodestra a essere meno apparato comunicativo e più “popolo in cammino”? Si accettano scommesse.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:01