Ma perché bisogna   guerreggiare a Mosul?

Nessuno dubita sulla genialità della scelta di Camillo Cavour di far partecipare il suo piccolo Piemonte alla coalizione europea impegnata nella guerra di Crimea. Lo fece per avere la possibilità di entrare nel novero dei Paesi che contavano e poter utilizzare questa crescita di rango nella strategia politica tesa alla costruzione dell’Unità italiana. Quel precedente storico è diventato nel secondo dopoguerra il principale ispiratore della politica estera del nostro Paese. Alla ricerca del rango perduto e di una qualche collocazione nelle alleanze che contavano nello scenario internazionale, i governi italiani di ogni colore e tendenza hanno imitato il conte di Cavour mandando soldati ovunque. Dalla Corea all’Afghanistan. In nome di una esigenza che in tanti casi sarà stata pure giusta, ma che in altri è apparsa più il frutto di una sindrome di Crimea che di una scelta ponderata e razionale.

Pare, adesso, che truppe italiane stiano partecipando all’offensiva che si sta sviluppando in Iraq e che è tesa a strappare Mosul all’Isis. Nessuno sa esattamente quale sia l’impiego dei nostri soldati. Se partecipino ai combattimenti in prima linea o se, più prudentemente, svolgano solo funzione di supporto. Ma, soprattutto, nessuno sa esattamente perché mai debbano partecipare ad operazioni militari in una zona in cui non esiste alcun tipo di interesse diretto del nostro Paese ed a fianco di una coalizione che non è il frutto di un accordo internazionale definito e concordato e che una volta strappata Mosul all’Isis si lacererà tra mille divisioni, diffidenze, contrasti ed ostilità insuperabili.

Che ci stiamo a fare a Mosul? A guadagnare l’invito a cena di Barack Obama per il nostro Premier Matteo Renzi e per la sua corte di eccellenze cortigiane? Ad ottenere dal Presidente degli Stati Uniti la benedizione per la fine del bicameralismo perfetto e la nascita di quello imperfetto e mal funzionante?

Se queste sono le ragioni della partecipazione italiana alla battaglia di Mosul non siamo alla sindrome di Crimea, ma ad una forma di autentica schizofrenia. Che rende il Paese bellicoso quando Matteo Renzi ha un interesse elettorale e personale da salvaguardare, ma lo trasforma in un Paese assolutamente pacifista e contrario a qualsiasi impiego bellico quando questo tipo d’interesse non esiste ed al suo posto ce ne sarebbe uno più generale riguardante l’intera nazione.

Perché guerreggiare a Mosul, ad esempio, e stare a guardare in Libia dove è fin troppo profondo ed evidente l’interesse dell’Italia a sconfiggere l’Isis e ad evitare che la quarta sponda dirimpettaia venga colonizzata da Egitto, Francia e Gran Bretagna?

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:06