L’antirazzismo come terrore

“Buonismo xenofilo”, tenetela bene a mente questa espressione! Essa racchiude la quintessenza del peggior integralismo ideologico. Di che si tratta? Ce lo spiegano Richard Millet, autore del volumetto “L’antirazzismo come terrore letterario”, e Renato Cristin, che ne ha curato l’edizione per la “Liberilibri” premettendovi una brillante introduzione forgiata in un italiano limpido e virile: raro, direi, di questi tempi e perciò doppiamente raccomandabile.

Il libriccino è infatti “la testimonianza di un perseguitato, la risposta accorata ma lucida di un romanziere messo all’indice dalla più potente e più invisibile delle organizzazioni, quella spectre del buonismo condensato che è il sistema di potere costituito da quello che egli chiama il ‘partito devoto’, il partito dedito cioè al culto di ciò che i suoi adepti chiamano il bene dell’umanità, il quale va difeso dalle minacce del conservatorismo reazionario e diffuso attraverso la propaganda dei diritti umani”. Nel migliore dei casi, sottolinea Cristin, questo schieramento ammette critiche provenienti dalla sua stessa parte: “Ogni critica, per essere ricevibile, può venire solo dalla sinistra”. E ricorda che il “linciaggio morale” è una pratica antica. Cita a riguardo Giangiacomo Mora, torturato ed ucciso, vilipeso da una colonna eretta nel 1630, abbattuta centocinquant’anni dopo su denuncia di Pietro Verri e resa immortale per infamia dalla penna di Manzoni. “Con tutte le differenze storiche e circostanziali, Millet è infatti un moderno Giangiacomo Mora, che diffonderebbe il morbo del razzismo come l’untore milanese avrebbe sparso quello della peste... Ma Millet non è razzista come Mora non fu untore”. L’accusa di razzismo, non diversamente dall’accusa di fascismo, nazismo e oggi di xenofobia e omofobia, è “la punta avvelenata di questa pratica terroristica”. Millet, sottolinea Cristin con indignata rassegnazione, patisce “una persecuzione che sembra incredibile, in un paese che ha fatto del terrorista assassino Cesare Battisti (per tragica fatalità omonimo di un eroe nazionale italiano) non solo un perseguitato politico da proteggere, ma anche uno scrittore di successo”.

È molto facile finire accusati, ostracizzati, isolati, ad opera del terrore antirazzista. Basta l’imprudenza di discostarsi, non dico opporsi, alla complessa ideologia del politicamente corretto “di cui l’Onu è la massima espressione istituzionale”, intrisa com’è di un cosmopolitismo tanto stupido quanto funesto. E qui Cristin appoggia le conclusioni sulle spalle di Kant, servendosi di straordinarie citazioni che i devoti dell’accoglienza e della tolleranza, dell’irenismo e della fratellanza, del “dirittismo” (come l’ho definito nel mio libro “L’ideologia italiana”) e del “diritto di avere diritti” (come azzarda Stefano Rodotà) dovrebbero quanto meno conoscere per cercare di evitare quei pericoli dell’intolleranza, sempre più temibili in futuro, i quali però, ecco il punto ignorato da preti, politici, umanitari assortiti, derivano da cause “assai più profonde di quelle imputabili semplicemente all’ignoranza e al pregiudizio” (Levi-Strauss, citato da Cristin).

Kant, ponendo un limite alla propria visione cosmopolitica della Terra, sostenne che l’ospitalità significa diritto di visita ma non diritto all’accoglienza: “Ospitalità significa il diritto che uno straniero ha di non essere trattato come un nemico a causa del suo arrivo sulla terra di un altro. Questi può mandarlo via, ma fino a quando sta pacificamente al suo posto non si deve agire verso di lui in senso ostile... Però non è un diritto di accoglienza, a cui lo straniero possa appellarsi (per questo si richiederebbe un particolare e benevolo accordo per farlo diventare per un certo periodo un abitante della sua stessa casa), ma un diritto di visita”. Cristin, sulla base della tesi di Levi-Strauss (una fonte insospettabile) secondo cui la reciproca tolleranza tra etnie presuppone due condizioni insoddisfatte dalle società contemporanee: una relativa uguaglianza personale e una sufficiente distanza fisica, ricava questo inoppugnabile precetto: “Non si può imporre, dall’alto e per decreto, la tolleranza a popolazioni molto diverse che si trovano in stretta contiguità”. Anche Giovanni Sartori, il principe della politologia italiana, pure citato da Cristin, afferma icasticamente che “il problema dell’estraneo non è solo posto dalla distanza culturale che intercorre tra la popolazione ospitante e le popolazioni in entrata, ma anche un problema di grandezza, del quanto di immigrazione”.

Dunque Cristin ha mille ragioni di affermare che “non è solamente la qualità (ovvero le caratteristiche culturali) degli stranieri ma anche la loro quantità a determinare i rapporti che gli autoctoni assumono verso di essi”. Retoricamente Sartori domanda: “Resistere dunque a una possibile esondazione xenotica sarebbe razzismo?” Quando l’antirazzismo assume la rigidità di uno schema totalitario diventa esso stesso razzismo, “non per rovesciamento dialettico ma per evidenza fenomenologica”, rileva Cristin.

Il libretto di Millet e la prefazione di Cristin si integrano idealmente in un testo, che è filosofico, politico, letterario; e smaschera una generalizzata acquiescenza agli ipocriti professionisti dell’antirazzismo ed al loro ripugnante “totalitarismo angelico”. Non a caso Millet pone ad occhiello del suo pamphlet questo pensiero dal Don Giovanni di Molière: “L’ipocrisia è un vizio alla moda, e tutti i vizi alla moda sono considerati virtù. Il personaggio del benpensante è la parte più bella che si possa recitare al giorno d’oggi, e la professione di ipocrita dà dei vantaggi eccezionali. È un’arte che nessuno smaschera mai; e anche ove la si smascheri, nessuno osa mai parlarne male. Tutti gli altri vizi del genere umano sono esposti a censura e ciascuno è libero di vituperarli pubblicamente; ma l’ipocrisia è un vizio privilegiato, che di sua propria mano chiude la bocca a tutti, e si gode in pace la più sovrana delle impunità. Bastano un po’ di messinscene e ci si trova legati in stretta solidarietà con tutte le persone della stessa risma. Chi se la prende con uno di loro, se li trova contro tutti quanti”.

Beh, la moda che Molière castigava è più che mai di moda, non solo in Francia.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 19:39