La Cgil è per lo<br / >status quo e vota “No”

L’assemblea della Cgil ha dato indicazione ai propri iscritti di votare “No” al referendum, con questa netta motivazione: “Giudica negativamente quanto disposto da tale modifica perché introduce... un rischio evidente di concentrazione dei poteri e delle decisioni: dal Parlamento al Governo, dalle Regioni allo Stato centrale”. Nella babele di contraddizioni imperanti tra i partiti, i movimenti e dentro gli stessi partiti, la Cgil manda un messaggio di assoluta chiarezza, che ha anche il pregio della coerenza con le proprie posizioni assunte da sempre in difesa dello status quo istituzionale.

Soprattutto nel secolo scorso il movimento sindacale, nel suo insieme, ha condizionato in lungo e in largo il processo di formazione della volontà del Parlamento e delle altre istituzioni di governo. L’ha fatto rivendicando un proprio diritto ad essere “coinvolto”, non semplicemente per fini di consultazione, ma per concorrere alla concertazione collettiva delle problematiche del mondo del lavoro e dell’economia. Partendo dal presunto diritto di partecipare al processo di assunzione delle decisioni sull’economia e sul lavoro, ha esteso, mano mano, la propria influenza anche su questioni non specificatamente di carattere economico. Lungo questo percorso, qualcuno ha avuto l’ardire di considerare i sindacati, al pari dei partiti, elementi costitutivi della forma di governo. Del resto, se la loro consultazione è obbligatoria e l’eventuale ritorsione alta, è evidente che, nonostante la palese violazione della Costituzione, il movimento sindacale abbia finito per acquistare un vero e proprio ruolo attivo o interdittivo dei processi decisionali dello Stato, modificando la stessa costituzione formale.

È vivo il ricordo del ruolo che, dagli anni Sessanta in poi, la Cgil ha svolto come “cinghia di trasmissione” dei partiti della sinistra, nel circuito sindacato-partito/partito-sindacato, contribuendo a condizionare ampiamente l’azione dei pubblici poteri. La situazione è completamente cambiata negli anni Novanta, con il superamento della proporzionale, la riappropriazione di alcuni poteri d’indirizzo da parte del governo e l’impossibilità di praticare politiche distributive in deficit spending. Dopo Maastricht e Amsterdam, infatti, con l’introduzione dei rigidi vincoli di bilancio imposti dall’Unione europea, il sindacato si è rassegnato a subire una mutilazione secca delle proprie prerogative “co-deliberative”.

In questo contesto, già profondamente rivoluzionato, il Governo Renzi, per bocca del suo presidente, ha avuto l’ardire di ufficializzare questo mutato clima delle relazioni sindacali. La proposta revisione costituzionale ne segna la definitiva sanzione ed è considerata come il culmine delle ostilità dichiarate nei confronti di certo mondo sindacale. Quando la Cgil denuncia il “rischio evidente di concentrazione dei poteri e delle decisioni: dal Parlamento al Governo, dalle Regioni allo Stato centrale”, lamenta la sua ulteriore marginalizzazione dai luoghi dove ha finora trovato ascolto. Infatti, se la riforma toglie poteri alle Regioni per darli allo Stato e lo Stato a sua volta riduce i margini d’iniziativa del Parlamento per trasferirli al Governo, il tutto causa per il sindacato una residua perdita dei residui ambiti co-decisionali.

Ma che cosa teme in concreto la Cgil, quando denuncia la concentrazione dei poteri e delle decisioni? Se si considera che la riforma restringe l’uso della decretazione d’urgenza, la sola disposizione che può creare “concentrazione” di poteri sul Governo è l’articolo 72, là dove prevede che l’Esecutivo può richiedere di trattare con “priorità” un disegno di legge essenziale per il proprio programma di governo. In questo caso infatti il Governo attiva una procedura parlamentare accelerata per portare a votazione la propria proposta in tempi rapidi. Un istituto di questo genere è previsto in gran parte delle democrazie parlamentari europee, senza suscitare particolare rumore. L’innovazione va considerata dunque come un’utilità, soprattutto perché mette a nudo i governi davanti alle proprie responsabilità. Troppo spesso, in sede di rinnovo del Parlamento, le maggioranze uscenti hanno giustificato le proprie omissioni o mancate azioni con le responsabilità altrui: soprattutto le lungaggini e i veti del Parlamento.

L’articolo 72 dà una mano a risolvere questo problema. L’ordine del giorno prioritario non basta, da solo, a superare le difficoltà dei governi privi di una solida maggioranza. Tuttavia, aiuta. Un’analoga disposizione era prevista anche nella riforma proposta da Silvio Berlusconi, bocciata nel 2006. Ho il sospetto che l’assordante silenzio del leader di Forza Italia, come le dichiarazioni fatte prima dell’estate da Fedele Confalonieri sul referendum prossimo, trovino la loro giustificazione in tante analoghe coincidenze, come questa.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 19:37