La leadership plurale per il centrodestra

La forza di Silvio Berlusconi è stata la sua leadership naturale. Certo, aiutata dalla forza economica e finanziaria e dalla forza mediatica. Ma fondata soprattutto sulla sua capacità personale di mettersi in sintonia profonda con il proprio elettorato e saperlo interpretare e rappresentare in maniera non saltuaria, ma continuativa per due decenni di seguito. Il suo avvento nella scena politica italiana ha innovato in maniera radicale il modello leaderistico, rendendolo simile a quelli delle democrazie più avanzate al passo con l’evoluzione della società della comunicazione e dello spettacolo. E questo modello ha dominato incontrastato per vent’anni di seguito dando vita al fenomeno dei partiti personali che è culminato nel partito personale ed a vocazione plebiscitaria di Matteo Renzi.

È ancora valido questo modello ora che l’azione congiunta della magistratura politicizzata e della malattia ha tolto la massima operatività alla leadership naturale di Silvio Berlusconi? Chi va predicando la necessità che il centrodestra si doti al più presto di un nuovo leader in sostituzione di quello debilitato dall’uso politico della giustizia e da un’operazione al cuore sembra dare per scontato che il modello leaderistico berlusconiano sia destinato ad essere perpetuato all’infinito. Ma la realtà è diversa. Perché senza Berlusconi quel modello si modifica e, pur mantenendo fermo il dato della personalizzazione della politica imposto dalla società della comunicazione, assume forme diverse e più adeguate ad una stagione in cui non compaiono leader dalla forza naturale simile a quella del Cavaliere.

Nel più recente passato si è pensato che l’unico leader in grado di raccogliere l’eredità di Berlusconi fosse Matteo Renzi. E lo stesso Renzi aveva mostrato di credere a questa considerazione personalizzando al massimo il referendum sulla riforma costituzionale, cioè facendo quanto avrebbe fatto Berlusconi all’apogeo della sua parabola politica. Ma la frettolosa marcia indietro del Premier di fronte alla constatazione che l’eccesso di personalizzazione lo avrebbe portato alla sconfitta certa ha dimostrato che anche la leadership renziana è ridimensionata e deve misurarsi con una realtà politica diversa da quella dei vent’anni precedenti. Lo stesso vale per il Movimento Cinque Stelle, dove la leadership di Beppe Grillo si è attenuata e, dopo la scomparsa di Gianroberto Casaleggio, è nato un direttorio che è diventato il vero vertice del partito.

Sbaglia, allora, chi pensa al modello berlusconiano da riproporre per la rinascita del centrodestra. Perché il Cavaliere non è sostituibile con un solo ed incontrastato leader, ma solo con la leadership plurale rappresentativa di un’area altrettanto plurale. Un direttorio anche per il centrodestra? E perché no?

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:06