Renzi e l’orma del gattopardo

La mazzata assestata al Premier e al suo Governo alle ultime elezioni amministrative comincia a dare i suoi effetti: Matteo Renzi sembra un pugile suonato in preda a una crisi di nervi. Per lui si mette male, basta osservare i segnali che arrivano da più parti, metterli in fila e trarre qualche conclusione. Dire che sia calato il vento sulla poppa renziana è fare della grossolana dietrologia? È questione di punti di vista ma, se tre indizi non fanno una prova, checché ne dicesse Agatha Christie, la simultanea “esplosione” di due diverse inchieste giudiziarie e un’intervista “pesante” somigliano molto ad un manifesto mortuario recapitato anzitempo a Palazzo Chigi.

Le inchieste, con tanto di intercettazioni “illuminanti” diffuse a corredo delle accuse, riguardano l’una la cerchia familiare di Angelino Alfano, criticatissimo ministro dell’Interno nonché capo del minuscolo Ncd, l’altra supposte infiltrazioni mafiose all’interno del “miracolo” Expo. L’intervista è quella rilasciata ieri l’altro da Massimo D’Alema a Fabio Martini de “La Stampa” di Torino nella quale si delinea lo scenario per il dopo-referendum costituzionale di ottobre (forse).

Chiariamo subito che né Alfano né Beppe Sala, pupillo di Renzi passato, “sull’ali dorate” della fama da grande manager, dalla poltrona di Expo a quella di sindaco di Milano, c’entrano nulla con le inchieste giudiziarie. Tuttavia, il quadro ambientale che viene fuori leggendo gli atti è di quelli che spingono il cittadino comune tra le braccia dei Cinque Stelle tanto il disgusto per l’uso spregiudicato che viene fatto del potere. Resta la tempistica sorprendentemente coincidente delle due notizie dal fronte giudiziario con la crisi d’identità scoppiata all’interno del Nuovo Centrodestra, che si conferma l’anello debole dell’Esecutivo.

Ammettiamo pure che non esista una giustizia ad orologeria ma, sarà un caso, sulla puntualità di certi interventi della magistratura ci si può regolare l’orologio. Se non sono processabili le intenzioni, possono apprezzarsi gli effetti: va a carte quarantotto la già precaria credibilità di alcuni uomini di Governo, se non del leader in persona, alla vigilia di una prova referendaria per una riforma costituzionale che oggi sembra non piacere a nessuno. Non può piacere certo a chi l’ha avversata da quando era ancora nella culla delle commissioni parlamentari e non piace a chi teme che pronunciandosi per il “Sì” finisca, come la monaca di Monza, a essere sospettato di peccaminosi rapporti con il potere renziano.

Fino al 5 giugno scorso dirsi amico del “rottamatore” e fare il filo a Mariaele (Boschi) era figo. Ora non lo è più tanto. Tra tre mesi si sentirà dire: “Renzi? io manco lo conosco”. Ma cosa accadrebbe se questo Governo dovesse cadere? Sarà il diluvio, come dice il Presidente del Consiglio minacciando la catastrofe? Nulla di tutto ciò, parola di D’Alema. Il leader maximo, portabandiera dei perdenti di successo, offre la sua ricetta: “Se cade questa pasticciata e confusa riforma, il Parlamento non soltanto potrà non essere sciolto... ma io credo che ci saranno anche un Governo, se necessario, e una nuova legge elettorale”. E così le caselle tornano al loro posto: per fermare l’ascesa dell’arrogante Renzi prima lo si indebolisce azzoppandogli i suoi uomini-immagine alla Beppe Sala e i suoi alleati strategici all’Angelino Alfano. Il colpo di grazia glielo lo si dà battendolo al referendum che lui stupidamente ha trasformato nella madre di tutte le battaglie, nel giudizio di dio e del popolo sulla sua persona. Rispedito a casa il giovanotto, si va a un Governo tecnico- istituzionale che completi la legislatura e s’incarichi di rifare la legge elettorale.

Libera da Renzi, la sinistra tornerebbe a fare il suo mestiere e la destra altrettanto, togliendo di fatto acqua ai Cinque Stelle. In fondo, potrebbe essere un finale desiderabile. “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, perché è lo spirito del gattopardo che alla fine ha sempre la meglio.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:02