Al quadrato renziano manca il lato franceschiniano

Sono due i dati politici più importanti emersi dalla direzione del Partito Democratico in cui Matteo Renzi ha sfidato la minoranza dem a cacciarlo vincendo il prossimo congresso del partito.

Il primo è che l’eterna assise nazionale del Pd, quella che si consuma ormai da tempo immemorabile e che scarica le sue conseguenze negative sull’intero Paese, è ad un passo dalla sua conclusione. Che non si celebrerà in qualche assemblea di delegati da convocare in un posto ed una data ancora tutta da decidere. Ma che avrà il suo momento culminante e decisivo nel referendum costituzionale che, come ha spiegato il Premier, non verrà spostato ma si terrà alla scadenza prevista del mese di ottobre.

Il Pd, in sostanza, non risolverà le sue beghe interne da solo. Ma lo farà in compagnia dell’intero corpo elettorale del Paese. Il ché, a dispetto di quanto possa apparire a prima vista, non è un esempio di grande democrazia ma la conferma della degenerazione del sistema democratico italiano realizzata da un partito che si è incistato nelle istituzioni e pretende di utilizzarne le regole per risolvere le proprie contraddizioni.

A sciogliere il nodo del doppio incarico, quindi, ci dovrà pensare il referendum sulla riforma costituzionale. Non importa se l’esito del referendum provocherà comunque la fine anticipata della legislatura e le successive elezioni politiche (Renzi è stato esplicito nell’indicare questo sbocco in caso di vittoria dei “no” ed è facile preventivare che sarà lui stesso a puntare alle elezioni in caso di vittoria dei “sì” per sbarazzarsi definitivamente dei suoi oppositori interni). È al voto degli italiani che il Pd affida la soluzione della incompatibilità genetica tra il proprio leader e la base del partito. Ed è facile immaginare che gli italiani non si faranno sfuggire l’occasione di sbarazzarsi in un colpo solo di un leader e di un partito incistati nelle istituzioni in maniera cancerogena e devastante.

Il secondo dato è che dalla direzione del Pd è emerso con chiarezza che il mito della insostituibilità di Renzi è stato superato. Fino a lunedì anche i più intransigenti nemici del Presidente del Consiglio si fermavano di fronte alla constatazione che Renzi non aveva un’alternativa credibile e possibile. Dall’altro ieri sappiamo che questa alternativa esiste e si chiama Dario Franceschini. Con l’apertura alla modifica alla legge elettorale da realizzare dopo il referendum, il ministro della Cultura si è candidato a diventare il successore di Renzi alla Presidenza del Consiglio di un Governo di larghe intese destinato ad evitare le elezioni anticipate in caso di vittoria dei “no” al referendum. Se Renzi cade, ha lasciato intendere Franceschini in perfetto stile post-democristiano, non c’è il caos e non si scatena il diluvio universale della crisi che sfocia nelle elezioni anticipate. Più semplicemente, come è sempre accaduto, liquidato un Premier se ne fa un altro. E la storia e la politica continuano!

Ai quadrati democristiani, diceva Giulio Andreotti, manca sempre un lato. Ai quadrati post-democristiani del Pd ora viene a mancare il lato franceschiniano. E Renzi è condannato ad immolarsi in un referendum dal risultato scontato.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:04