A prescindere da ogni ragionevole dubbio

Dunque, come un po’ tutti si aspettavano, Massimo Giuseppe Bossetti è stato condannato dalla Corte d’assise di Bergamo all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio.

In attesa delle prossime mosse del collegio difensivo, il quale ha mostrato una determinazione ed un coraggio oltre lo stoicismo, ancora una volta la giustizia mediatica colpisce in modo esemplare il predestinato di turno. Una giustizia mediatica che aiuta gli inquirenti ad addentrarsi in quella pericolosa strada giudiziaria che gli anglosassoni chiamano visione ristretta, concentrandosi in maniera ossessiva su un singolo imputato e su un singolo teorema pregiudiziale. Eppure, al di là di una traccia di Dna molto discutibile, analizzata senza alcuna controparte, non più ripetibile e la cui provenienza biologica è ignota, non esiste alcuna altra prova circostanziale che leghi Bossetti a questo atroce delitto. Nessuna prova circostanziale che dimostri un qualche rapporto precedente tra l’ancora presunto innocente e la vittima. Nessuna prova circostanziale che chiarisca i motivi che avrebbero spinto un gran lavoratore dall’esistenza specchiata a sopprimere la vita di una tredicenne, abbandonandola agonizzante in un campo di Chignolo d’Isola. I pochi riscontri aggiuntivi che la Procura di Bergamo ha tentato di utilizzare come sostegno ad una accusa che ancor oggi mi risulta surreale sono stati puntualmente demoliti dalla agguerrita difesa condotta magistralmente da Claudio Salvagni e Paolo Camporini, col supporto molto illuminante di esperti del calibro di Ezio Denti e Marzio Capra.

Ciononostante, una microtraccia di un umore sconosciuto e mancante del Dna mitocondriale e di altri riscontri, basato su una ricerca costosissima e perigliosa partita da un francobollo utilizzato decenni addietro, è bastata per convincere al di là di ogni ragionevole dubbio la giuria, formata secondo la legge da 6 giudici popolare e 3 giudici togati. Ovviamente, come oramai sta accadendo da anni in questo disgraziato Paese, il ruolo dei media, colpevolisti per definizione, ha giocato un ruolo preponderante, unito alle prime e molto incaute dichiarazioni dell’attuale ministro dell’Interno, Angelino Alfano, il quale, parafrasando un suo collega che a suo tempo gioiva per una banca, nell’immediatezza dell’arresto del muratore di Mapello comunicò agli italiani che finalmente “avevamo un colpevole”.

A questo punto, come ci siamo augurati in molti altri casi di giustizia- spettacolo, c’è solo da sperare che esista ancora un giudice a Berlino, come si suol dire. Nel frattempo non possiamo non prendere atto di un totale ribaltamento del principio cardine di ogni moderno diritto, ossia la cosiddetta presunzione d’innocenza. Soprattutto quando si finisce nel tritacarne mediatico, il colpevole per acclamazione televisiva lo diventa a tutti gli effetti a “prescindere da ogni ragionevole dubbio”. Avanti il prossimo!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:02