D’Alema e la favola del re nudo

La grana scoppiata in casa Pd sul presunto endorsement di Massimo D’Alema alla candidata grillina Virginia Raggi è qualcosa di più di una semplice querelle giornalistica.

Tutto è partito da un presunto scoop de “La Repubblica” secondo cui, a proposito del ballottaggio per la poltrona di sindaco di Roma e del prossimo referendum costituzionale, l’ex-capo dei post-comunisti avrebbe detto: Voterei pure Lucifero pur di mandare a casa Renzi e sono pronto a costituire comitati per il “No”. Se fosse vero si tratterebbe di un micidiale dardo di fuoco lanciato dal “leader maximo” contro il vertice del suo partito. Peccato però che, a stretto giro, l’interessato abbia fatto pervenire ai media una secca smentita. Quelle frasi non le avrebbe mai pronunciate. D’Alema ipotizza che ci sia stata una montatura ai suoi danni, orchestrata dal più illustre esponente del mondo finanziario-editoriale pro-renziano. Lo scopo sarebbe di individuare un comodo capro espiatorio sul quale fare ricadere la responsabilità della più che probabile sconfitta elettorale del Pd domenica prossima. A chi bisogna credere? Al giornalista che riporta la notizia o al politico che la smentisce? Probabilmente a nessuno dei due e a entrambi.

È francamente difficile immaginare che D’Alema abbia prestato il fianco ai suoi detrattori in modo tanto ingenuo, non fosse altro perché per uno che si considera un grande stratega di architetture politiche - generalmente fallimentari, ma questo si tace - una simile miopia visuale sarebbe un insulto ad una sconfinata considerazione di sé. Però può starci il fatto che gli amici del Premier gli abbiano voluto tendere una trappola al solo scopo di appiccicargli addosso l’etichetta di uomo nero del Partito Democratico nella convinzione, affatto infondata, che il ruolo gli calzi benissimo per quel particolare tratto caratteriale che lo rende più antipatico che simpatico.

Tuttavia, dette o non dette quelle parole, resta il fatto che Matteo Renzi, per quanto non lo desideri e faccia di tutto per evitarlo, si debba preparare ad accollarsi la responsabilità di un valutazione molto negativa data dagli italiani alla sua azione di governo e concretizzatasi nelle urne alla prima occasione utile: le elezioni amministrative. Resta poi in piedi l’altra questione che affiora da questa telenovela di scoop veri o fasulli: il disagio della base del Pd per la brusca virata centrista, imposta dal suo attuale capo in comando. Sull’orizzonte dalemiano non è tramontato il sogno di ricostruire una forza totalmente radicata nei capisaldi della cultura socialista novecentesca. All’interno del Partito Democratico D’Alema e i reduci della stagione post Pci sono ormai emarginati e ridotti al silenzio dall’onda montante del blairismo italiano impersonato da Renzi. Ciò che essi gli contestano è lo snaturamento identitario della matrice socialista e progressista che, per il passato, è stata forza egemone, attrattiva e trainante di tutto il centrosinistra. Con l’avvento di Renzi al timone del partito e del governo, invece, è spuntata nel Pd un’anomala vocazione ad abbracciare tematiche e proposte proprie del centro e della destra moderata. Non si è trattato di una banale manovra obbligata dal tatticismo preelettorale, ma di una mutazione genetica a tutti gli effetti.

Ora, D’Alema può smentire quanto vuole i virgolettati di “Repubblica” ma la sostanza non cambia: lo scontro che si annuncia all’interno del Pd dopo gli esiti referendari avrà una portata epocale e lascerà molti morti – metaforicamente parlando – sul terreno. Tutti gli altri attori della scena istituzionale non avranno modo di toccare palla a questo giro di boa della politica. In compenso, grillini, leghisti, forzisti e residua varia umanità parlamentare potranno dirsi confuciani, seduti sulla sponda del fiume ad aspettare che passi un cadavere. Che sia quello di Renzi o di D’Alema lo scopriremo presto.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:01