Riforme: non basta la parola

La parola “riforma” rappresenta uno dei cardini dell’ambiguità politica italiana. Suscita speranze e timori di egual numero. C’è chi la brandisce come la spada di Brenno e chi la propina come un rimedio miracoloso. Perché alletta e impaurisce? Perché gli italiani hanno dovuto imparare a temerla quando hanno sperato ed a sperare quando l’hanno temuta.

Che riformare sia un bene in sé è una sciocchezza bella e buona. Gli antichi, Greci e Romani, avevano in gran sospetto i politici in fregola di cambiamenti. Li bollavano come “escogitatori di novità”. In certi casi, li punivano per il solo fatto di prospettarle se non addirittura di proporle come nuove leggi. Da allora ad oggi si è visto che tal genia di innovatori mira più a colpire la fantasia del popolo credulone che a risolverne i problemi. Di più: solleva problemi inesistenti o superabili con piccoli aggiustamenti pratici e li ingigantisce oltre misura al solo scopo di presentarsi come indispensabile a risolverli. Cercare necessariamente nella novità la chiave di un miglioramento può al contrario evidenziare poca intelligenza in chi pretende di realizzarlo. Infatti cambiare per cambiare è la passione degli stolti, specialmente di quegli stolti che impastano la voglia con la fretta.

Ma la parola “riforma” è essa stessa ambigua come poche. Negli ultimi anni risuona dal Manzanarre al Reno, da Bruxelles a Lampedusa, da Londra ad Atene. In bocca a Cameron o a Tsipras, alla Merkel o a Draghi, a Hollande o Renzi suona diversa non perché viene pronunciata in lingue diverse. Per esempio, con “riforme” Renzi intende più debiti e meno rigore, mentre Merkel il contrario: più rigore e meno debiti. Renzi, poi, ha elevato la parola al massimo significato. La usa come sinonimo di missione salvifica. Se ne sente investito da un asserito mandato popolare. Lui, che sta lì per volontà del Parlamento, non del corpo elettorale; chiamato da Napolitano e confermato da una maggioranza truccata. Fatto sta che dice di sentire la voce dall’alto che lo chiama “a fare le riforme”. Sicchè, chi quella voce non la sente, deve esservi trascinato sebbene contrario. Quest’autentica mistica del riformatore lo sta trascinando nei vortici di un delirio revisionista nel quale non trovano posto né la ragionevolezza, né il dissenso, né l’opposizione. Egli non s’avvede di gonfiarsi come la rana di Esopo, giorno dopo giorno. Ha tacitato tutti nel partito. È straconvinto che il suo interesse coincida con l’interesse degli italiani. Da qui gli proviene la smania delle riforme, che vanno fatte, giuste o sbagliate. Per stare alle due riforme nefaste, quella elettorale e quella costituzionale, che sono intrecciate come serpi in amore, esse contraddicono smaccatamente la dichiarazione d’intenti di Renzi, ma non il suo scopo. Se voleva ottenere quanto dichiarato, le riforme avrebbero dovuto essere il contrario di come sono. Ma egli voleva ottenere esattamente ciò che otterrebbe se tali riforme diventassero operative.

Dunque, la parola “riforma”, oltre che ambigua e pericolosa, diventa anche truffaldina, se adoperata come formula rituale di governanti in preda ad autocompiacimento tanto ingiustificato quanto nocivo.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:02