Il grido di dolore dei sindaci in trincea

I sindaci non ci stanno. E lanciano appelli. L’ultimo in ordine di tempo, bipartisan, è stato indirizzato alle massime istituzioni della Repubblica e vergato da sette primi cittadini. Cosa chiedono i firmatari? Nulla di specifico, desiderano solo maggiore rispetto per un mestiere che, un tempo bello e gratificante, oggi è divenuto complicato e rognoso. Secondo gli appellanti a guidare le amministrazioni locali si rischia l’osso del collo. Poche risorse a disposizione, che diminuiscono sempre più a ogni tornata di legge di stabilità; cittadini inviperiti che diventano aggressivi quando li si tocca nei loro minuti interessi.

Poi, la magistratura alloggiata in pianta stabile sull’uscio della casa comunale: un atto, un’indagine. Così non si va avanti, denunciano gli interessati. Un grido d’allarme, però, che non tutti apprezzano. Massimo Cacciari, filosofo ed ex sindaco di Venezia, respinge l’invito al mittente. Per lui l’appello è “patetico” e tardivo. Chi ha ragione? Per paradosso si potrebbe dire tutti. Non hanno certo torto i firmatari della lettera nel denunciare una situazione di degrado istituzionale che si è riverberata sulle comunità locali. È purtuttavia innegabile che in passato le casse comunali siano state terreno di caccia di incontenibili predatori del malaffare. Ciò però non vuol dire che sia stato giusto curare il malato riducendogli gradualmente il flusso dell’ossigeno, come hanno fatto gli ultimi governi che si sono succeduti dallo scoppio della crisi economica globale. I Comuni svolgono tradizionalmente servizi sociali di immediato impatto sulla popolazione residente: tagliarne i fondi si traduce in una perdita di qualità della vita per i cittadini.

Ma ha ragione anche Cacciari nel domandarsi del perché se ne ricordino solo oggi di aprire bocca “dopo vent’anni, vent’anni di progressivo e sistematico smantellamento della figura dei sindaci da parte del centralismo governativo, vent’anni di degenerazione”. Farlo ora, per il filosofo, non senso. Ha ragione, ma il discorso va molto più indietro nel tempo. La “Prima Repubblica” ha investito sul modello del regionalismo che si è rivelato totalmente fallimentare, invece di assecondare, in coerenza con la storia e l’identità della nazione, il consolidamento di un’architettura istituzionale fondata sulla valorizzazione del municipalismo. L’Italia è terra di campanili, nel senso buono del termine.

Le Regioni, messe a regime negli anni Settanta, sono diventate centrali di spesa incontrollata e di proliferazione di una classe dirigente inadeguata e corrotta. Una seria riforma dell’assetto costituzionale avrebbe dovuto porre all’ordine del giorno la messa in discussione di questi enti inutili: altro che posti di prima fila nel nuovo Senato partorito dal signor Matteo Renzi. Ci domandiamo se i sindaci vogliano affrontare costruttivamente il problema o se la loro sia stata soltanto una mozione degli affetti per salvare reputazioni individuali. Sarebbe saggio se, dopo i piagnistei, si mobilitassero per chiedere con forza al Governo e al Parlamento un netto disboscamento della selva normativa che sta asfissiando il Paese. Le troppe regole, che sovente nascono per contraddirsi l’un l’altra, sono state il nettare che ha nutrito un’insana burocrazia e il metallo prezioso che ha forgiato l’arma giudiziaria brandita nell’agone politico.

Come se ne esce? Restituendo ai primi cittadini un’autonomia decisionale autentica. Non serve a nessuno un sindaco costretto a vivere sotto il costante ricatto del: “un atto, un’inchiesta”. Qualcuno obietterà: ci sono quelli che rubano. E con questo? Dei “mariuoli” se ne occupino i giudici, ma a tutti gli altri siano date poche leggi chiare e risorse adeguate. Vedrete che andrà sicuramente meglio di come è adesso.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:01