Sulle intercettazioni nulla cambierà

Matteo Renzi non ha alcuna voglia di toccare la normativa sulle intercettazioni. Ha troppa paura di restare impigliato in una pericolosa lotta al coltello con la magistratura.

La strombazzata volontà di fare compiere al Paese un balzo in avanti verso la piena civiltà giuridica è solo una chiacchiera priva di sostanza. Certo, quando accade che i suoi più stretti collaboratori vengano gettati nel tritacarne della diffusione a mezzo stampa delle conversazioni private scatta il riflesso pavloviano che lo spingerebbe a tirare il freno. Ma è solo una reazione istintiva. La verità è che nessuno, e lui più degli altri, ha davvero voglia di mettere mano a una seria riforma del sistema. Non è conveniente. E poi, volendo, anche la barbarie si nutre di ragioni plausibili. La tesi in auge presso i contrari alle restrizioni all’uso delle intercettazioni è che il sistema d’indagine impiantato in Italia non possa fare a meno di uno strumento fondamentale per l’accertamento dei reati. In effetti, la polizia giudiziaria, fortemente penalizzata dai tagli di risorse e di personale, non è più in grado di svolgere l’attività investigativa nelle forme tradizionali di raccolta delle informazioni. Inoltre, non è sufficientemente attrezzata a fronteggiare l’evolversi delle tecnologie che la controparte criminale è in grado di procurarsi grazie alle enormi risorse di cui dispone. Diventa quindi inevitabile il ricorso allo strumento della “pesca a strascico” attraverso le intercettazioni. Una sorta di speranza messianica che gli investigatori coltivano perché, a furia di scrutare le vite degli altri, qualcosa di penalmente rilevante salti fuori.

Ma le intercettazioni servono anche ad altro, non soltanto a puntellare ipotesi accusatorie traballanti. Sostengono il mercato dell’informazione. I giornali, e i media in generale, campano pubblicando i resoconti delle schifezze che personaggi più o meno noti al pubblico si dicono in privato. Tra i vizi della stirpe italica vi è purtroppo la deprecabile inclinazione a non farsi i cavoli propri, ma a desiderare di conoscere quelli altrui. Si tratta di un’insana ossessione che genera mercato. Per questo che la gran parte dei “soloni” dell’informazione finge di stracciarsi le vesti a difesa dei diritti inviolabili della persona, mentre nel chiuso delle redazioni si scanna per procacciarsi le rivelazioni più disgustose da sbattere in prima pagina. Se ci si limitasse a pubblicare solo le notizie penalmente rilevanti, evitando di attingere al verminaio delle confidenze rubate, quante prestigiose testate giornalistiche dovrebbero chiudere bottega? C’è poco da fare: l’immagine morbosa della ex ministra Federica Guidi nei panni della “sguattera del Guatemala” abusata dal compagno-padrone fa più audience della crisi libica e delle testate nucleari della Corea del Nord messe insieme. Poi, le intercettazioni rappresentano lo strumento principe della lotta politica in uso nella Seconda Repubblica.

Come la storia politica di Silvio Berlusconi ha dimostrato, la sola pubblicazione dei suoi conversari amorosi è bastata per sovvertire la volontà sovrana del corpo elettorale. Non fosse che per questo solo episodio lo sputtanamento dell’avversario a mezzo stampa dovrebbe entrare a pieno titolo nei manuali di Diritto Costituzionale alla voce “prassi per la destabilizzazione degli assetti di potere”. La sinistra più della destra ha fatto tesoro di questo scellerato metodo di confronto e adesso fa fatica a rinunciarvi. Capirete bene che in un simile scenario fangoso l’uso improprio delle intercettazioni non abbia alcuna possibilità di essere ridimensionato non perché, come dicono i magistrati, esse siano un insostituibile mezzo investigativo ma perché incarnano la parte peggiore della nostra essenza: morbosa, voyeur, pettegola, intrigante. Dovremmo farci un po’ schifo per questo, ma da buoni cristiani confidiamo nel perdono che alla fine sappiamo concederci da noi stessi.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:58