Rosi e non Risi, caro Matteo

Ieri l’altro si è tenuta la direzione del Partito Democratico. Rassegnatevi: more solito. Il fil rouge è quello della narrazione che riflette un universo rovesciato. Non surreale, ma diversamente reale. Avrebbe dovuto essere il momento della riflessione decisiva sul futuro politico del partito. Invece è stato uno show in luogo del confronto. Prossemica che vince sulle idee. Uso improprio dell’uditorio. Gli interventi nel dibattito: parole prive di spessore. Vincenzo De Luca alla tribuna: lo sforzo di sembrare Maurizio Crozza. Così è scivolata via, come acqua sulla roccia, orfana di orma, la strombazzata “resa dei conti”.

Tuttavia, a dispetto della lunga sequela di annoiate banalità, due cose potrebbero idealmente riscattare un’attesa, altrimenti vana. La prima: la stoccata secca che Gianni Cuperlo ha mandato a segno, pur nell’indifferenza diffusa di una distratta platea di figuranti. “Penso che tu non ti stia mostrando all’altezza del ruolo che ricopri, non stai mostrando in questi passaggi delicati della vita del Paese e della sinistra la statura di un leader e a volte coltivi l’arroganza dei capi”.

Niente male per un flebile oppositore del segretario-premier. Cuperlo dà dell’incapace e dell’inadeguato al suo capo. Se lo dice lui, perché dubitarne? Non sarà la pistola fumante di un thriller che si rispetti, ma è quanto basta per confermare il giudizio negativo sulla persona Renzi: non è all’altezza. La seconda: la stecca presa nel climax che chiude la replica agli interventi. “Lingua-sciolta”, nell’eccitazione delle suggestioni sparate a raffica, si imbatte nella citazione di “Mani sulla città”, un famoso film-inchiesta di denuncia della collusione tra politica e malaffare nella Napoli ai tempi del laurismo. Matteo lo spregiudicato, come lo chiamerebbe Ridley Scott in un improbabile colossal su un’Italia virtuale, attribuisce l’opera cinematografica a Dino Risi, anziché al suo vero autore che è stato Francesco Rosi.

Qualcuno penserà che si sia trattato di un banale refuso. Invece a noi piace credere che sia stato un appropriato lapsus freudiano che aiuta a spiegare la natura bifronte del politico-comunicatore Matteo Renzi. Francesco Rosi, cresciuto alla scuola di quell’austero gentiluomo del cinema italiano che è stato Luchino Visconti, nell’immaginario collettivo degli italiani ha il posto del capostipite della filmografia a sfondo politico degli anni Sessanta-Settanta. Dino Risi, al contrario, è uno dei massimi interpreti della Commedia all’Italiana. Non sempre allegra, magari dura, sferzante, amara, ma pur sempre commedia. Renzi opera nel linguaggio la cusaniana coincidentia oppositorum e l’incarna plasticamente, per la gioia della fisiognomica. Egli si compiace di affrontare il dramma della vita infestata dalle cose che non funzionano con gli strumenti e i codici del commediante. Come quando si abbandona all’enfasi evocando una consunta diversità morale per marcare la differenza tra la Sinistra, migliore, e la Destra, peggiore. Ne viene fuori una patetica imitazione del severo Enrico Berlinguer addizionata da un’involontaria carica di comicità scaturita dalla concomitanza delle sue parole con quelle rese, a pochi passi di distanza, dalla reginetta della festa Maria Elena Boschi ai magistrati lucani che l’interrogavano sulle vicende connesse allo scandalo della ministra Federica Guidi.

È accaduto come a Buenos Aires quando, nel corso della visita di Stato in Argentina, simulando uno stato onirico, ha declamato una poesia che secondo lui era di Jorge Luis Borges, peccato però che di Borges non fosse. Alla fine ci si convince che Renzi è qualcosa di più di un volgare gaffeur, non dice castronerie, semplicemente riscrive la realtà. Allora, ecco svelato l’arcano della sua narrazione: un’altra Italia in un altro universo. In un ologramma. Siamo forse approdati alla “Second Life”?

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:58