La guerra della Jihad, che fare?

Dopo l’orrore di Bruxelles, i maitre à penser del politamente corretto invocano cautela di giudizio. Dicono che non bisogna lasciarsi andare a discorsi di pancia. Come se urlare la propria rabbia di fronte ai morti che pesano sulla coscienza di un’Europa per sua scelta vulnerabile, significasse liberare i bassi istinti. Neanche per un istante questi ideologi del multiculturalismo sono stati sfiorati dal dubbio che tra la debole reattività di una società aperta deprivata del connotato identitario e i morti seminati per le strade dalla lucida follia jihadista vi potesse essere qualcosa di più di una deplorevole circostanza.

L’Unione europea non ha un esercito comune. Non esiste alcun coordinamento effettivo tra le intelligence dei suoi paesi membri. Il nemico ha sfruttato a proprio vantaggio la scarsa comunicazione delle informazioni sensibili tra le diverse forze di sicurezza per infiltrarsi e colpire i target con relativa facilità. Ora, ci si domanda: è forse trattenendo gelosamente le informazioni che si garantisce la sicurezza delle comunità? Se davvero si vuole reagire le frasi di circostanza non servono: occorre passare all’attacco. Come? Bombardando i jihadisti a casa loro? È un modo, ma non basta. Ciò che serve è una seria indagine cognitiva per scovare chi sta dietro lo Stato Islamico. Chi mette i soldi per fare girare una macchina complessa ed efficace. Una volta individuato dove conduca la catena di comando del terrorismo jihadista bisogna schiacciare senza pietà la testa del serpente.

Il fatto è che i governi occidentali non hanno gran voglia di scoprire la verità perché temono di trovarsi di fronte a sgradevoli sorprese. Che fare se il filo d’Arianna dei soldi portasse dritto alle tasche di certi ambigui emiri, sultani e sceicchi? Occhio non vede cuore non duole, recita il proverbio. Quindi, non andare alla radice del problema evita imbarazzi e l’obbligo etico di rinunciare a dei buoni affari. Ma, oltre a colpirne la testa, bisognerebbe prestare attenzione anche al resto del serpente. È un dato certo che gli attentatori siano solo la punta dell’Iceberg. L’humus ambientale, che fa delle comunità d’immigrati musulmani autentiche enclave incistate nel cuore nelle maggiori città europee, funge anche da reticolo di protezione e di supporto ai gruppi terroristi. Ora, sarebbe estremamente salutare per la nostra sicurezza se, una volta individuate e neutralizzate le cellule combattenti, si procedesse alla bonifica di tutto il contesto socio-familiare di sostegno alle attività terroriste. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, le autorità americane disposero l’internamento coatto dei cittadini originari dei Paesi in guerra con gli Usa. Anche di quelli che avevano ottenuto la cittadinanza statunitense e i cui figli stavano combattendo lealmente sotto la bandiera Stelle & Strisce. Perché non fare oggi la medesima cosa? Tutti i soggetti sospettati di aver prestato assistenza ai terroristi andrebbero deportati in apposite strutture di sicurezza. Siamo in guerra? E allora agiamo di conseguenza. Ma l’inconsistenza dell’odierna Europa sta tutta nelle lacrime da donnetta isterica di una tremebonda Federica Mogherini. Avremmo bisogno di ben altro che ci tiri su il morale. Ci vorrebbe la Margaret Thatcher di Brighton che pronunciò il suo discorso più duro contro il terrorismo sopra le macerie fumanti dell’albergo sventrato dallo scoppio della bomba che gli attentatori dell’Ira le avevano destinato. In presenza di quella medesima forza d’animo, carica di convincimenti ideali profondi e consapevole della grandezza dei propri mezzi e della propria storia, i nemici dell’Europa non dormirebbero certo sonni tranquilli.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:04