
Ritornare in Libia per l’Italia è molto più di un azzardo. È un obbligo. Che comporta pericoli gravissimi. Non solo ai soldati che metteranno gli anfibi sul terreno, ma anche alla popolazione civile del nostro Paese su cui incomberà il pericolo di attentati da parte dell’Isis e dei tanti altri terroristi islamici.
Ma ad un obbligo, imposto non solo dalla storia, dalla geografia, dagli impegni con gli alleati europei ed americani ma soprattutto dagli interessi nazionali (petrolio, sicurezza nel canale di Sicilia e sulle nostre coste e, in generale, una parte del futuro benessere della società italiana), non ci si può sottrarre. Per cui bisogna incominciare ad abituarsi all’idea che il nostro Paese venga impegnato in tempi brevi nella vecchia colonia per combattere gli artefici del caos e i fautori del califfato di stampo medioevale e per creare o consolidare strutture statali destinate a dare stabilità alla Libia.
Prepararsi alla prospettiva di un intervento di natura militare, però, non può e non deve esaurire l’impegno. Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna possono anche permettersi di ripetere l’esperienza della guerra del 2011. Cioè considerare l’Isis come considerarono il regime di Gheddafi ed ipotizzare la conclusione del loro intervento al momento dell’esaurirsi del cosiddetto “lavoro sporco” di natura bellica.
L’Italia non può permettersi di limitarsi a sganciare le bombe, fare piazza pulita e sgomberare prima possibile il territorio. Se così fosse sarebbe meglio tirarsi indietro immediatamente e lasciar sporcare le mani ad altri. Accanto alla messa a punto della macchina militare da spedire a Tripoli, il governo italiano deve assolutamente e contemporaneamente predisporre una macchina civile per quell’azione di cooperazione e di sostegno che appare indispensabile per fornire una finalità utile e nobile all’azione bellica. Questa macchina civile deve pensare per tempo alla ricostruzione di un Paese martoriato ed al sostegno materiale, morale e di sicurezza ad una comunità che ha perso ogni struttura pubblica e che per sopravvivere è stata costretta a riscoprire lo spirito tribale. Ma questa macchina civile deve anche prevedere tempestivamente la concreta eventualità che una Libia liberata dall’Isis diventi il punto di approdo di quei flussi di migranti africani e mediorientali decisi ad utilizzarla come base di partenza per l’Europa e l’Italia.
Si tratta di spostare il baricentro delle strutture dell’accoglienza dal nostro Paese a quello libico. Prevedendo aree e luoghi di raccolta da rendere non solo vivibili e dignitosi, ma da trasformare in luoghi di formazione e di selezione di chi voglia trasferirsi in Europa. L’impegno dell’Italia in Libia, in sostanza, è più ampio e gravoso di quello degli altri Paesi. Ma è anche quello a cui non ci si può in alcun caso sottrarre se non si vogliono tradire la storia, la vocazione umanitaria ed i valori!
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:04