Salvini nel mirino   dei magistrati

Pessimo segnale quello che arriva dalla procura di Torino che ha aperto un fascicolo a carico di Matteo Salvini. Reato ipotizzato: vilipendio dell’Ordine giudiziario. Domenica scorsa, dal palco del congresso della Lega Nord del Piemonte, Salvini, commentando la vicenda giudiziaria di Edoardo Rixi, assessore allo sviluppo economico della regione Liguria nonché vice segretario federale della Lega, ha definito la magistratura italiana “una schifezza”.

Tanto è bastato perché il procuratore Armando Spataro aprisse un fascicolo d’indagine, spedendo la Digos milanese a far visita alla sede leghista allo scopo di acquisire informazioni sul caso. Non vi è dubbio che la frase pronunciata dal leader leghista davanti al suo popolo non sia brillata per eleganza, tuttavia è lecito chiedersi se, dopo settanta anni di vita democratica, in questo paese possano ancora essere perseguite penalmente le opinioni. Già! Perché quella di Salvini, per giusta o sbagliata che sia, resta un’opinione e il fatto che un procuratore della Repubblica si senta in dovere d’agire così repentinamente, ipotizzando la violazione dell’articolo 290 del Codice Penale, somiglia molto più a un riflesso plavoviano di difesa corporativa di una casta d’intoccabili che alla risposta a una concreta domanda di giustizia. D’altro canto, questa reazione d’impulso non è sempre stata uguale.

Quelli più avanti negli anni ricordano perfettamente i tempi in cui una certa sinistra dei salotti buoni scaricava sui magistrati contumelie in dosi quotidiane accusandoli di essere fascisti, al servizio dei padroni, degli americani, della Cia e di non si sa quali altre entità occulte ed eversive, eppure, a memoria, non si ricordano casi di procure che abbiano contestato ai “rivoluzionari” col Porsche parcheggiato sotto casa alcun reato di vilipendio dell’Ordine giudiziario. Ai tempi dei professionisti dell’antimafia, come li chiamava Leonardo Sciascia, alcuni magistrati furono messi nel mirino, colpiti dalle accuse più infamanti. Uno per tutti: il giudice Corrado Carnevale, sfottuto in modo osceno dai fighetti del politicamente corretto che lo chiamavano “l’ammazzasentenze”. Eppure non si ha memoria di particolari moti di indignazione sollevatisi a fronte degli attacchi a quella parte dell’ordine giudiziario ritenuto non in linea con la nouvelle vague del giustizialismo trionfante. A pensar male si fa peccato ma si corre il rischio di azzeccarci.

La reazione all’uscita di Salvini odora di trappola servita a un avversario dell’establishment renziano in costante ascesa. Sarà pure una suggestione ma nell’attivismo del procuratore Spataro si ode un lontano stridio degli ingranaggi giudiziari che si mettono in moto con sospetto tempismo quando, a destra, compare qualcosa di politicamente credibile. Come è accaduto, per vent’anni, al personaggio Berlusconi. Chi conosce il leader della Lega sa bene che è molto improbabile coglierlo con una mazzetta in tasca, allora ci si appende al nulla di un reato d’opinione, che neanche dovrebbe esistere in una società civilizzata e che solo la pigrizia colpevole della classe politica consente che permanga nel codice penale, per potere far aprire le prime pagine dei “giornaloni”, in crisi di astinenza da notizie serie, con un cubitale: “Salvini indagato”.

Tutto ciò non è un bel vedere e, soprattutto, mostra il fiato corto di una tattica che non ha futuro. Se davvero i magistrati si ritengono offesi dalla dichiarazione del segretario della Lega rispondano con i fatti. Magari aumentando gli sforzi per perseguire i mafiosi e i corrotti e per tenere in galera i troppi delinquenti che se la spassano a commettere reati odiosi per i quali difficilmente saranno chiamati a pagare il conto alla giustizia. La magistratura è cosa troppo seria per servirsi, a difesa del suo prestigio, di un’anticaglia del passato: il reato d’opinione.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:59