La Banca Etruria e la ministra Boschi

Si poteva intuire a naso che la storia del decreto salva-banche, che ha ridotto sul lastrico centinaia di migliaia di piccoli risparmiatori, fosse un dramma di questi nostri tempi malati. Ma non ci si aspettava che evolvesse tanto rapidamente in tragedia. Invece, c’è scappato il morto. Il pensionato Luigino D’Angelo di Civitavecchia, correntista della Banca Etruria, una delle quattro aziende di credito finite nell’occhio del ciclone, si è suicidato. Qualcuno dirà: sono i rischi del mestiere, se si vuole lucrare maggiore profitto comprando prodotti finanziari, va messa in conto la possibilità di perdere tutto. Ma Luigino era soltanto un brav’uomo che si è fidato di quel personale bancario che avrebbe dovuto proteggere il suo denaro e non abusare della sua buona fede.

Non siamo esperti di mercati finanziari ma, da profani, ci viene di pensare che ciò che è accaduto sia stato un atto umanamente vile. E, probabilmente, anche un crimine. Il governo dice di voler correre ai ripari azionando “misure umanitarie” per salvare dalla rovina almeno una parte dei truffati. Speriamo lo faccia. Ma nutriamo dubbi che vi riesca conoscendo quanta differenza vi sia, nella narrativa renziana, tra i fatti e il loro annuncio. Tuttavia, un aspetto della vicenda ci disgusta particolarmente. Riguarda la posizione del ministro Maria Elena Boschi. L’avvenente “first lady” della stagione renziana procede come se nulla fosse. Eppure, non dovrebbe visto che, in qualche modo, se non la sua persona certamente la sua biografia entra in questo sporco pasticcio. Il padre della ministra è socio ed è stato vicepresidente fino a qualche tempo fa della Banca Etruria. La stessa di cui era cliente il povero Luigino.

Ora, sebbene si debba attendere il lavoro degli inquirenti per stabilire le responsabilità penali di ciascuno dei protagonisti del crac, buon gusto avrebbe consigliato che la giovane ministra lasciasse la scena istituzionale, giusto per il tempo di chiarire il ruolo del suo autorevole genitore nella vicenda. Si dirà: ma cosa c’entra la figlia con i maneggi del babbo? C’entra, eccome! Se la giovane esponente politica avesse avuto un percorso di vita del tutto autonomo dalla sua famiglia, nulla quaestio. Invece la signorina Boschi è passata repentinamente dal salotto di casa ai saloni quirinalizi dove giurano i ministri della Repubblica. Quali meriti professionali, quale excursus politico, quali esperienze amministrative poteva vantare la giovanotta per essere catapultata ai vertici delle istituzioni? È lecito supporre che il cognome abbia fatto aggio sul resto. D’altro canto, in Italia non è una novità distinguere tra curricula formali, che si scrivono e si presentano come sanno bene milioni di nostri giovani e curricula non scritti ma sussurrati che valgono molto di più dei primi. Ecco perché riteniamo che la vicenda politica della ministra non possa essere disgiunta da quella della sua famiglia. Ecco perché pensiamo che un passo indietro sia un atto eticamente dovuto alle migliaia di famiglie travolte dal default della banca. Invece, silenzio assoluto. Come sempre è scattato il meccanismo perverso della doppia morale: a quelli di sinistra si consente ciò che ai competitori di destra non sarebbe mai permesso.

Rivolgiamo una domanda ai dirigenti del Partito Democratico confidando in quel residuo di onestà intellettuale che potrebbe essergli avanzata tra una Leopolda e l’altra: se il vice presidente della banca incriminata, anziché essere il genitore della signorina Boschi, fosse stato il babbo della signora Mariastella Gelmini o della signorina Mara Carfagna, cosa sarebbe accaduto? Sospettiamo che, tra fiaccolate di indignati e articoli de “la Repubblica”, sarebbe successo il finimondo. Non è forse così che sarebbe andata, compagni?

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:15