Parigi, 13 novembre 2015. Sono rientrato la notte scorsa da Roma in questa città dove lavoro ormai da due mesi, con l’Ong “Ensemble contre la peine de mort”. Ho appena concluso una riunione e torno a casa nel Decimo arrondissement, a pochi passi da Place de la République; non so ancora che sarà proprio la morte a dominare le prossime ore di Parigi. È soprattutto in questa zona che, poco dopo, la sera è lacerata da esplosioni, straziata dall’urlo delle sirene di molte ambulanze, percossa dall’alto dal rombo di elicotteri. È qui – percepiamo già prima di averne conferma dai comunicati della polizia – che decine di vite sono ora spezzate.
Capiamo subito che non potremo mai dimenticare quello che sta accadendo. Come nessuno dimentica dov’era “l’11 settembre”, quell’11 settembre, chi ha vissuto l’angoscia del 13 novembre a Parigi la porterà dentro di sé come una ferita dalla quale non si può guarire del tutto.
Intorno alla mezzanotte l’intera Francia ascolta il presidente Hollande in diretta: “Degli attacchi terroristici di un’ampiezza senza precedenti sono in corso. Ci sono state diverse decine di persone uccise, ci sono molti feriti, è un orrore. Noi abbiamo, su mia decisione, mobilitato tutte le forze possibili perché si possa ottenere la neutralizzazione dei terroristi e la messa in sicurezza di tutti i quartieri coinvolti... Ho anche convocato il Consiglio dei ministri. Due decisioni saranno prese: sarà decretato lo stato d’emergenza, cosa che vuol dire che molti luoghi saranno chiusi, la circolazione sarà vietata in alcuni luoghi… La seconda decisione che ho preso è la chiusura delle frontiere affinché le persone che hanno commesso questi crimini possano essere arrestate... C’è, di fronte al terrore, una nazione che sa difendersi”. Sapremo più tardi che le frontiere non sono chiuse, ma solo più controllate. Poco dopo l’una di notte, quando è terminato l’assalto delle forze speciali al teatro Bataclan, si hanno i primi dati precisi sul numero delle vittime e inizia la caccia a terroristi sopravvissuti, che potrebbero, durante la fuga, compiere altre stragi. Lo stato di emergenza autorizza perquisizioni senza mandato della magistratura, mentre la presenza di agenti di polizia e militari dell’esercito si moltiplica rapidamente nelle stazioni ferroviarie, nelle linee della metropolitana di cui restano chiuse solo alcune fermate, nelle decine di luoghi simbolo della cultura, della bellezza, della storia della città. La mattina di sabato 14 novembre è spettrale. Parigi sembra quasi deserta, sono ancora pochi coloro che portano un fiore, una candela davanti al teatro, ai ristoranti, ai caffè delle stragi. Place de la République inizia lentamente ad essere il centro del dolore e della memoria collettiva – come fu a gennaio, dopo l’attacco a “Charlie Hebdo”. Sono chiusi e lo resteranno ancora per alcuni giorni teatri, cinema, musei, la torre Eiffel. La giornata per molti trascorre nelle case, in attesa di notizie, cercando per telefono o sui social network gli amici che si sapeva essere nell’area più colpita.
Domenica 15 segna più forte la volontà di superare lo sgomento, di riprendere la vita. I turisti affollano gli Champs Élysées, con una presenza di polizia che sembra relativamente serena anche se numerosa. Si vedono in giro anche pattuglie della Gendarmerie, mentre i grandi esercizi commerciali che hanno scelto di aprire hanno predisposto un servizio di sicurezza privata all’ingresso: non ne è esente nemmeno il negozio Disney. “Les Villages de Noël”, che nel tratto verso Place de la Concorde si sviluppano su entrambi i lati del viale più celebre del mondo, sono stati inaugurati venerdì pomeriggio, ma ora restano chiusi. Appena scende la sera, proprio a Place de la Concorde – sotto la luce tricolore della ruota panoramica – l’arrivo frenetico di macchine della polizia a sirene spiegate, con agenti che scendono pistole alla mano, allontana un gruppo di turisti che corrono via nel panico: è il momento dei falsi allarmi, il più rischioso in Place de la République dove ormai si riuniscono migliaia di persone.
Lunedì 16 è il giorno della riapertura delle scuole, degli uffici, del ritorno a molti elementi della normalità; le prime ore – fino al minuto di silenzio di mezzogiorno – sono spesso dedicate a raccontarsi, a condividere le emozioni, a tentare di esorcizzare il male. In riunione, da me, una ragazza riferisce con calma dei propri pensieri; ma d’improvviso scoppia a piangere. Rivedo allora nella mia mente i momenti in cui ho dovuto imparare ad assorbire il dolore senza emozionarmi – da giornalista free lance o da responsabile di progetti per i diritti umani. La rivoluzione romena, le guerre della ex Jugoslavia, il Kurdistan, la Cecenia, l’Iraq... Infine, l’Ucraina. E le candele e i fiori, ormai innumerevoli, di Place della République corrispondono a quelli di Maidan a Kiev: cause diverse, ma una stessa Europa che ha bisogno di comprendersi, di definirsi, per poter essere coerentemente solidale nella difesa dei propri valori costitutivi.
“La France est en guerre” pronuncia il presidente Hollande a Versailles davanti al Congresso – le due Camere del Parlamento riunite. “Gli atti commessi venerdì sera… costituiscono un’aggressione contro il nostro Paese, i suoi valori, la sua gioventù, il suo modo di vivere. Sono causati da un esercito jihadista, Daesh, che ci combatte, che combatte la Francia, poiché siamo il Paese dei diritti umani”. Affermazioni di principio, ma accompagnate dalla promessa di uso legittimo della forza: oltre alle azioni aeree in Siria, non ci saranno tagli degli effettivi della Difesa fino al 2019, la Riserva verrà maggiormente utilizzata, gli organici di Gendarmerie e Polizia Nazionale saranno aumentati, per “mettere tutta la potenza dello Stato al servizio della protezione dei cittadini”. Se questo impegno è anche una risposta alle destre, un contenimento alla loro avanzata, è bilanciato da un altro: “I ritmi della nostra democrazia non sono sottomessi ai ricatti dei terroristi. Le elezioni regionali saranno mantenute nelle date previste e la vita politica nel suo insieme deve riprendere il suo corso”.
Fierezza di una nazione in cui almeno la grande maggioranza sembra raccogliersi intorno alla propria bandiera e al canto, di nuovo al massimo di popolarità, della Marsigliese; ma in cui i problemi dello scontro sociale, dei comunitarismi identitarî, delle contrapposizioni ideologiche non sembrano destinati a sciogliersi come d’incanto. Di certo, insieme alla necessità rivendicata di una maggiore coesione nell’Unione europea, la Francia sente l’urgenza di provvedere con efficacia alla propria difesa; e Hollande – come i più responsabili fra i leader dell’opposizione – sa che o il processo di rafforzamento della sicurezza sarà guidato in modo democratico e razionale, o verrà chiesto in modo controproducente, evocando la fine di molte garanzie democratiche, da demagoghi forieri di catastrofi.
(*) Antonio Stango ([email protected]) è il coordinatore del Congresso mondiale contro la pena di morte
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 18:28