
La prima sentenza emessa a carico di uno dei coimputati di Buzzi e Carminati ha confermato l’impianto accusatorio della Procura di Roma, stabilendo che i fenomeni di corruzione venuti alla luce a Roma vanno puniti con l’aggravante dell’associazione mafiosa. Dunque, “Mafia Capitale” esiste. E non perché a Roma c’è stata una infiltrazione della mafia tradizionale proveniente dalla Sicilia, ma perché il tipo di corruzione che si è verificato all’ombra del Campidoglio va considerato come un reato di stampo mafioso.
Questa prima sentenza non è stata considerata come una novità. Anzi, era addirittura scontato che non si discostasse dall’indirizzo dato all’inchiesta dalla Procura. Così come viene considerato altrettanto scontato che il maxi-processo su Mafia Capitale si concluda nella stragrande maggioranza dei casi con condanne aumentate dell’aggravante dell’associazione mafiosa. Gli avvocati più esperti sono convinti che il primo grado di giudizio difficilmente altererà questa previsione ed ipotizzano che solo dal secondo grado o dalla Cassazione potrà arrivare qualche valutazione meno drastica nei confronti d qualcuno degli imputati.
Il maxi-processo a Mafia Capitale è quindi destinato a stabilire che non esiste solo la mafia di tipo tradizionale ma che il reato di corruzione, quando viene commesso in concorso con altri, diventa automaticamente un reato mafioso. Con tutte le conseguenze giuridiche del caso. Cioè con l’allargamento della legislazione emergenziale antimafia ai fenomeni corruttivi, che sembrano essere diventati la caratteristica principale del cosiddetto Bel Paese.
Buona parte della magistratura pare convinta in perfetta buona fede che questo balzo in avanti nell’estensione della legislazione emergenziale sia indispensabile per combattere ed estirpare il malaffare che affligge l’Italia. E gran parte dell’opinione pubblica appare entusiasta di questo giro di vite nella lotta alla corruzione. Ma è bene cercare di frenare questo entusiasmo di stampo giustizialista rilevando che l’identificazione tra mafia e corruzione può produrre nella società italiana storture difficilmente sanabili.
La prima è che se tutto diventa mafia è il Paese intero che viene marchiato come mafioso. Con la conseguenza che quando Matteo Renzi va a promuovere all’estero l’immagine dell’Italia rischia di ritrovarsi a promuovere l’immagine della nazione di Cosa Nostra. Per non parlare di Papa Bergoglio che rischia di ritrovarsi, a causa dei “corvi” e delle infiltrazioni corruttive in atto nella Chiesa, a rappresentare un Vaticano mafioso agli occhi di un mondo che da Lutero in poi ha sempre visto la Roma dei Papi come la sentìna di tutti i vizi.
Ma il danno non è solo d’immagine. Estendere l’emergenza antimafia a gran parte della società nazionale significa stringere in una morsa autoritaria l’intero Paese. E, soprattutto, continuare nell’errore di credere che solo la repressione può essere la cura dei vizi nazionali. Trasformare la corruzione in mafia può eliminare i sintomi ma non la malattia. Che va combattuta, insieme alla mafia, solo con la radicale sburocratizzazione di uno Stato che con la sua struttura medioevale è la vera fabbrica della corruzione e dei fenomeni mafiosi.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:17