
La telenovela del Campidoglio è giunta ai titoli di coda: Ignazio Marino torna a casa per effetto delle dimissioni in massa dei consiglieri della sua maggioranza. Comune sciolto per autoaffondamento e fine della storia per il marziano di Roma. Francamente non c’importa un fico secco di cosa vorrà fare da grande il sindaco disarcionato, è un suo problema. Non v’è dubbio, però, che il Partito Democratico si sia ammalato dello stesso morbo che colpì Forza Italia nel momento di massimo fulgore del suo leader: il successo mediatico di Matteo Renzi non si è tradotto in consenso per le sue articolazioni territoriali. Ma non è solo Roma a preoccupare il premier. Anche a Milano e a Napoli il Pd fatica a trovare candidature per le prossime elezioni amministrative che siano organiche alla linea del vertice nazionale.
Renzi lo ha compreso e per questo fa di tutto per separare la sua immagine dall’involversi degli scenari locali. Ora il potere centrale è nelle sue mani e, grazie al soccorso dei tanti “patrioti” che stazionano in Parlamento, potrà tenerselo stretto per due anni abbondanti; perché rischiarlo mostrando il petto nel mattatoio delle comunali? In due anni molto può accadere, l’importante è che un risultato elettorale negativo in primavera non possa essere ricondotto alla sua leadership. I pretesti da appiccicare alle probabili sconfitte sono già pronti: Roma è caduta per colpa della “pazzia” di Marino e dell’incapacità di Matteo Orfini, a Milano non si è passati perché Pisapia ha dato forfait, a Napoli si è perso a causa del fuoco-amico di De Magistris-Masaniello e del suo populismo radical-chic. Nulla insomma che richiami Renzi alla benché minima responsabilità per un insuccesso annunciato.
Ma se il Pd perdesse, chi vincerebbe? In un paese normalmente bipolare al crollo della sinistra corrisponderebbe l’affermazione della destra. Da noi, purtroppo, non sarà così perché a competere per la vittoria non c’è soltanto un centrodestra che tarda a ritrovarsi; il terzo incomodo della partita si chiama Movimento 5Stelle. Quello che fino a ieri poteva sembrare un’iperbole della politica, ora è una probabilità, domani forse una certezza: la pattuglia di ragazzi rissosi e scomposti che salgono a protestare sui tetti di Montecitorio ma si dimezzano gli stipendi per restituirli al popolo può diventare un’alternativa concreta al renzismo. E un elettorato prudente potrebbe trovare opportuno l’appuntamento di midterm delle comunali per sperimentarne le capacità nella gestione di livelli istituzionali complessi, quali sono le amministrazioni delle grandi città, ma non così impegnativa com’è il governo della nazione. Chi li voterà? Qui casca l’asino. Il centrodestra non ha azzeccato la valutazione sulla composizione dell’elettorato 5Stelle.
Per lungo tempo Berlusconi e i suoi sono stati prigionieri di una leggenda metropolitana che collocava i grillini a sinistra. Può darsi che alcuni di loro provenissero dai movimenti antagonisti, ma la base elettorale non è di certo estremista. Mentre il centrodestra cercava i voti perduti nel serbatoio dell’astensionismo, non si accorgeva che una parte di coloro che erano stati sedotti, e poi delusi, dalla narrazione berlusconiana si era affidata al carisma, meno elegante ma efficace, di Beppe Grillo. L’unico che ha intuito per tempo lo smottamento è stato Matteo Salvini. Non è un caso se oggi in campo, per il centrodestra, vi sia soltanto lui. La scommessa fittiana è ancora in nuce e Fratelli d’Italia, nonostante il battagliero piglio di Giorgia Meloni, non sfonda. Forza Italia è alla canna del gas; se anche individuasse un proprio candidato per la leadership non saprebbe dove alloggiarlo visto che perfino la sede nazionale è stata chiusa per debiti. Eppure, non è così che deve morire un progetto cominciato vent’anni orsono. Si attendono segnali dal cielo sopra Arcore.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:13