Anm-faccia di bronzo sul caso della Saguto

Per una volta uno può essere d’accordo persino con Angelino Alfano quando, rivolgendosi ai magistrati dell’Associazione nazionale magistrati, riuniti fino a domenica scorsa a Bari per il loro conclave, gli ha ricordato che ci vuole una bella faccia tosta a prendersela con la politica, che a loro dire vorrebbe spuntare le armi ai pubblici ministeri per combattere la corruzione, quando poi sul caso dei beni sequestrati alla mafia e amministrati in maniera familistica dall’apposita sezione del Tribunale di Palermo hanno tenuto un atteggiamento a dir poco morbido con i protagonisti negativi della “storiaccia”. Tutti rigorosamente magistrati progressisti. E nessuno finito neanche agli arresti domiciliari, pur con la mole di indizi e prove che è piovuta loro addosso.

Ci sono intercettazioni che evidentemente producono effetti meno devastanti nelle vite delle persone, se gli intercettati hanno la toga. Ad esempio quella dello scorso 10 luglio, in cui la dottoressa Silvana Saguto (solamente ieri è arrivata dal Csm la richiesta di sospensione dalla carica e dallo stipendio) sembrava nervosissima a chi ne ascoltava le conversazioni con le microspie piazzate nel suo ufficio. Con lei un ufficiale della Dia che le consigliava di non parlare al telefono. E che per ora nessuno ha neppure identificato. E pensare che, in altre conversazioni captate e diffuse qualche giorno fa da numerosi siti di giornali palermitani, usciva fuori un ritratto di una donna che spendeva decine di migliaia di euro al mese, arrivando ad indebitarsi persino con un supermercato sequestrato ad un imprenditore in odore di mafia per una cifra vicina ai 20mila euro.

Le accuse per la donna? Concorso in corruzione, induzione alla concussione, autoriciclaggio e abuso d’ufficio. I fatti? Incarichi a sei zeri distribuiti ad amministratori giudiziari amici in cambio di favori, assunzioni, consulenze. Tutto questo forse darà luogo ad un trasferimento d’ufficio se, bontà sua, il Consiglio superiore della magistratura, si darà una mossa in tal senso. Di manette facili neanche a parlarne. E neppure di arresti domiciliari. Per un cittadino qualunque sarebbe stata questa la regola?

Al marito della giudice era andato, per la cronaca, una specie di subappalto da parte dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara. Quello che fino a pochi giorni orsono gestiva la maggior parte degli incarichi conferiti dalla sezione di cui la Saguto era il presidente. Persino il prefetto Giuseppe Caruso, ex direttore dell’Agenzia dei Beni confiscati, esternò a suo tempo contro di lui davanti alla Commissione antimafia presieduta dalla Bindi rivelando che per aver gestito l’Immobiliare Strasburgo, società del gruppo Piazza, l’avvocato Cappellano Seminara “ha preso una tranche di 7 milioni di euro, mentre per quanto concerne il Cda percepiva 150mila euro l’anno”.

Ma sino a un paio di settimane fa a Palermo di questo verminaio tutti sapevano e parlavano, ma nessuno interveniva a livello giudiziario. Tantomeno con arresti spettacolo. Secondo i Pm, Cappellano Seminara, mantenuto dalla Saguto nelle cariche in cui già si trovava ad amministrare i beni di mafia, avrebbe dato all’ingegnere Lorenzo Caramma, marito della Saguto, consulenze negli anni per 750mila euro. L’avvocato avrebbe fatto anche assumere uno dei figli del magistrato, Elio Caramma, come chef di Palazzo Brunaccini, albergo a quattro stelle in pieno centro storico, controllato, per gli inquirenti, dallo stesso Cappellano Seminara tramite la società L.G. Consulting srl, riferibile alla madre e alla figlia.

A Palermo, nell’allegra gestione dei beni di mafia, più della metà degli undicimila “asset” immobiliari e mobiliari sequestrati in tutta Italia per un valore stimato intorno ai 35 miliardi di euro, sono coinvolti altri due giudici: i Pm Dario Scaletta e Lorenzo Chiaramonte. Il primo è accusato di rivelazione di segreto per aver fornito notizie sull’indagine a carico della sezione misure di prevenzione. Per il secondo si parla di abuso d’ufficio: da magistrato della stessa sezione della Saguto non si sarebbe astenuto dall’affidare la gestione di beni per 10 milioni sequestrati al boss Luigi Salerno, nonostante l’amministratore designato fosse una persona a lui vicina. Il Csm era “curato”, secondo l’accusa, da Tommaso Virga, che in passato ne fu membro. Il quale a propria volta aveva un figlio, Walter, nominato in seguito ad amministrare i beni sequestrati agli imprenditori Rappa e Bagagli.

Bene, in un altro Paese uno scandalo del genere sarebbe stato ben peggiore nei propri riflessi mediatici. Ben più della consueta corruzione da mazzetta ai vigili in cui si sostanziano la maggior parte delle inchieste di Roma e Milano. Che un assessore prenda una mazzetta in una burocrazia come quella italiana è, purtroppo, “nelle cose”. Ma che dei giudici con stipendi da 100 o 150mila euro l’anno nominino familiari, amici e parenti con compensi a sei zeri per parassitare, più che amministrare, i beni sequestrati alla mafia, anziché renderli disponibili alla collettività che dalla mafia viene quotidianamente danneggiata e oppressa, a chi scrive sembra cosa infinitamente più grave.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:12