Il pensionato che spacca l’Italia

Opinione pubblica e partiti si dividono sulla vicenda di Francesco Sicignano, il pensionato di Vaprio D’Adda che, nella notte dello scorso lunedì, ha ucciso un rapinatore penetrato nella sua abitazione.

Oggi Sicignano è diventato un caso perché la Procura di Monza ha riformulato il capo d’imputazione da eccesso di legittima difesa a omicidio volontario. Sicignano non era solo al momento dell’incidente. Con lui la moglie, il figlio, la nuora e i nipotini. Neanche il ladro era solo; testimoni confermano la presenza sul posto di almeno altre due persone che si sono date alla fuga dopo gli spari. Non è la prima volta in cui la cronaca racconta casi di cittadini esasperati che decidono di difendersi. Sicignano aveva un’arma regolarmente detenuta e l’ha usata. Ora, la domanda che rimbalza nel dibattito pubblico è la seguente: l’uomo ha fatto bene a sparare? Si sa che nei falsi tribunali allestiti dai media venga esibito solo il simulacro della Giustizia. Il processo mediatico, essendo rappresentazione scenica di un’altra rappresentazione che è il processo penale, si concede libertà interpretative che, nella maggior parte dei casi, distorcono la realtà. Non è un caso se, nell’immaginario collettivo, si sia consolidata l’idea della doppia verità: quella mediatica e quella processuale. Un sano garantismo consiglierebbe di combattere la prima per evitare alla seconda, inevitabilmente più lenta, di non tutelare a dovere l’onorabilità di coloro che, nel frattempo, siano cadute vittime dell’ordalia dei mezzi d’informazione.

Tuttavia, il caso Sicignano interroga le coscienze. Ciò impone di modificare la domanda iniziale: al posto del pensionato avremmo ugualmente fatto fuoco? Come Sicignano anche noi, avendone i mezzi, avremmo premuto il grilletto, agendo d’impeto in quell’unico momento circoscritto e irripetibile nel quale fossero stati i nostri sensi a trasmetterci segnali inequivoci di pericolo grave e imminente. L’essere umano non è solo carne e ossa; è cervello e cuore; è ragione e istinto. È, dunque, insopportabile ipocrisia voler stabilire “a tavolino” quante dosi di adrenalina sarebbero consentite in casi come quello di cui ci occupiamo. Se qualcuno prova a giocare con il bilancino del farmacista per attribuire torti e ragioni lo fa perché una legge bizantina sulla legittima difesa glielo consente.

Dicevano gli antichi: in cauda venenum, il veleno è nella coda. L’articolo 52 del Codice Penale nasconde il veleno dell’ambiguità nel finale del primo comma, che recita “sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”. Fiumi di inchiostro sono stati impiegati per commentare, puntualizzare, interpretare la disposizione di legge; sentenze delle supreme corti ne parlano. Ma resta il problema: come fa l’offeso, in pochi istanti e in condizioni di stress emotivo, a commisurare la reazione all’intensità del pericolo incombente? Legge nel pensiero dell’aggressore? Lancia la monetina: testa o croce, sparo o non sparo?

Quanto sarebbe più salutare se il legislatore provvedesse a chiarire meglio le cose, se dicesse che la furtiva intrusione notturna di un soggetto in un’abitazione privata, a prescindere dai mezzi o dalle armi usate per l’effrazione, integri gli estremi del massimo pericolo al quale sia lecito opporre la massima reazione. Punto. Invece, siamo costretti ad assistere all’indecente esposizione della psiche dell’indagato al ludibrio o alla commiserazione delle opposte tifoserie. Nel caso Sicignano la palla è nel campo degli inquirenti. Essi hanno il dovere di fare indagini, ma devono tenere conto della realtà. Il clima che si respira in Italia da qualche tempo è pessimo. Sempre più gente è convinta di essere discriminata nei propri legittimi diritti. Di questo passo si rischia lo scontro sociale per innescare il quale la storia di un Sicignano qualsiasi potrebbe funzionare da pietra focaia.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:14