Chiesa del silenzio e Chiesa degli insulti

Le dichiarazioni rilasciate l’altro giorno dal segretario generale della Cei, Nunzio Galantino, alla Radio Vaticana, sono sconcertarti. E ingiuriose. A proposito dell’accoglienza degli immigrati all’alto prelato è scivolato il piede dal pedale del freno, perché ha definito chi in Italia si oppone alla politica delle porte aperte ai clandestini “piazzisti da quattro soldi che pur di prendere voti, di raccattare voti, dicono cose straordinariamente insulse!”.

Gli insulti non dovrebbero appartenere al lessico di un servo di Dio. Alla faccia della tolleranza, monsignore! Non è elegante e non è giusto apostrofare leader di partito che rappresentano milioni di italiani alla stregua di abietti ciarlatani. Si abbia un po’ di rispetto anche per chi non la pensa alla maniera del politicamente corretto. Galantino si rammarica della miopia dei suoi connazionali, che confonderebbero il reale con il percepito. Per lui, evidentemente, l’invasione delle città e dei piccoli paesi della provincia italiana è solo un effetto ottico. Lo vada a spiegare di persona a tutti quei poveri cristi che con lo straniero fuori dell’uscio di casa ci fanno i conti tutti i giorni. Non si tratta di egoismo minuto e nemmeno di razzismo. Vi è un principio più alto che sia chiama identità. Preme riaffermarlo, anche a costo di rendersi odiosi agli occhi dei tanti “benefattori” che in queste ore sdilinquiscono alle parole del sant’uomo. Oggi, dichiararsi per la difesa di questo valore fondante della nostra comunità nazionale, per i sacerdoti e le vestali del multiculturalismo, è reato d’infamia. Dire che se una patria esiste, esistono anche i confini che la delimitano e quei confini sono sacri e inviolabili è forse peccato mortale? Fare come David Cameron in Inghilterra si può o si finisce all’inferno tra i dannati?

Sia chiaro, nessuno pensa che si debba sparare su chi cerca di approdare sulle nostre coste, ma farcire la torta dei buoni sentimenti con stucchevoli dosi di egualitarismo zuccheroso, inghirlandandola con graziosi “mea culpa!” è, come scrive Jean Raspail nel suo profetico “Il campo dei santi”, un dolce davvero nauseante. La società delle porte aperte sarà pure l’utopia condivisa da tutte le correnti del pensiero terzomondista, ma non è quella della maggioranza degli italiani. Benché la cosa possa dispiacere all’illustre prelato, questa è la terra fatta col sangue dei nostri padri e vorremmo che restasse tale anche per i nostri figli. Gli immigrati avranno le loro buone ragioni, ma vi sono quelle degli italiani che hanno la precedenza. Vi sono o no i diritti di cittadinanza con i quali la sinistra si è sciacquata la bocca per decenni? La giusta solidarietà con i poveri del mondo deve tradursi nel sostegno dei Paesi avanzati a quelli in ritardo di sviluppo per migliorare la qualità della vita individuale e collettiva in loco. Bisogna produrre ogni sforzo possibile affinché tanta gente disperata non commetta l’errore d’intraprendere viaggi della speranza dagli esiti incerti e talvolta mortali. Bisogna mettere piede in Libia per evitare che partano. La Chiesa vuole dare una mano? Benissimo. Ceda un po’ del suo immenso patrimonio immobiliare per investire il ricavato in progetti di cooperazione internazionale. Sarebbe un bel segno dato nella giusta direzione.

Invece, il sospetto che affiora è che il messaggio umanitario del Pontefice sia stato filtrato dalla gerarchia ecclesiastica a proprio uso e consumo. Aleggia nell’aria una voglia di “pauperismo altrui” che francamente stona. Cosa si pretende che facciano gli italiani più di quanto non stiano già facendo? Devono spogliarsi dei loro beni per offrirli cristianamente agli immigrati? Se così deve essere allora ci mostrino loro, i santi uomini di Chiesa, come si fa. Diano l’esempio e poi ne riparliamo.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:18