Pd: il destino di una minoranza

Nel Partito democratico sale la temperatura e non perché siamo in agosto. I dissidenti della minoranza interna, arroccati nel ridotto di Palazzo Madama, puntano a fare dell’elezione diretta dei componenti del Senato riformato, le Termopili del XXI secolo. Alla fine, nella folle corsa ingaggiata col premier, quando i ribelli saranno a un passo dal precipizio sterzeranno per evitare di cadere nel vuoto. Lo faranno perché hanno compreso che Matteo Renzi ha qualcosa che a loro continua a mancare: un progetto. Lui ha una visione del mondo in grado di sedurre settori dell’elettorato tradizionalmente lontani dalla sinistra.

Oggi il Pd renziano non è il partito dei lavoratori, non scruta l’orizzonte in attesa del sol dell’avvenire, non sogna il grande abbraccio tra le masse comuniste e quelle cattoliche. È piuttosto il nuovo club dove i moderati possono tranquillamente soggiornare senza sentirsi minacciati. Chi sono costoro? Il loro profilo è presto tracciato: sono solidaristi quanto basta per soddisfare l’immagine di buoni cristiani; in politica, trasformisti secondo convenienza; liberisti in giusta dose per godere dei benefici del mercato; legalitari in modica quantità per tutelare i privilegi acquisiti; sui diritti civili sono progressisti, ma senza esagerare. Insomma, sono riproduzioni in scala del macrotipo italico: il Gattopardo. Oggi che questo elettorato di garantiti ha benedetto il suo nuovo messia non è disponibile a scambiarlo con velleitari surrogati riaffioranti, come relitti, da un passato fallimentare e nemico. Lo spiega bene Staino nella sua lettera-abiura a Gianni Cuperlo, pubblicata dalla filorenziana “L’Unità”: “Renzi è quanto di più progressista si possa avere in Italia in questo momento storico”.

Quindi, per Staino, cari compagni della sinistra che fu, accontentatevi e non state a rompere i coglioni. Quale migliore sintesi, sebbene non propriamente in stile gramsciano, per dire che Matteo Renzi, con l’aiuto della manina nascosta del primo comunista d’Italia, Giorgio Napolitano, sta portando a casa il risultato, mai prima d’ora riuscito a nessun genio del Pci, di prendersi il Paese. Presto lo capiranno anche gli ultimi moicani della sinistra interna. Si renderanno conto che una lotta per la sopravvivenza è ancora possibile ma non nelle foreste paludose del Vietnam parlamentare. Il terreno ideale per l’ultima battaglia resta quello congressuale. È in quella sede che dovranno scatenare “la controffensiva delle Ardenne” per fermare le colonne corazzate del piccolo Patton di Ponte Vecchio. Possono contare su un dato certo che la propaganda renziana tende a tacere perché troppo scomodo: la percentuale dell’astensionismo registrata nelle amministrative dell’Emilia-Romagna. Nella regione più rossa d’Italia i vecchi compagni hanno voltato in massa le spalle a Renzi, fregandosene della popolarità di cui gode presso i nuovi amici della prospera borghesia. Dalle sponde del grande fiume potrebbe prendere vita quel progetto di nuovo socialismo che manca e, soprattutto, potrebbe palesarsi il volto di quell’alter ego, al momento incognito. I dissidenti hanno due anni pieni per organizzare la scalata al vertice del partito. Sapranno sfruttare questo tempo costruendo il necessario consenso?

La risposta è tutt’altro che scontata. Per avere truppe efficienti e combattive è necessario che per primi i comandanti siano affamati di lotta e di vittoria. Dieci anni di “Porcellum” a liste preconfezionate li hanno resi pingui e bolsi, abituandoli ad avere il pranzo e la cena serviti. Nessuno sforzo richiesto per procacciare il sostentamento elettorale a se stessi e al partito. Ora, se i dissidenti vogliono avere un futuro dovranno fare e meno delle comodità, dovranno andare in strada ad affrontare la gente. Dovranno saper accettare gli sputi e la rabbia di un popolo tradito. Non è un gioco. Non è “l’Isola dei famosi”. È la storia della sinistra.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:15