L’Ajc sull’accordo nucleare iraniano

Il 14 luglio scorso, quando fu annunciato a Vienna il Joint Comprehensive Plan of Action (piano d’azione globale comune – Jcpoa), l’Ajc rilasciò un comunicato in cui dichiaravamo che solo dopo aver esaminato il testo della mozione e le sue implicazioni avremmo preso posizione sull’accordo, mentre allo stesso tempo il Congresso Usa entrava nei 60 giorni del periodo di revisione. Nel corso delle ultime tre settimane, l’Ajc si è impegnata in un intenso processo, aperto e approfondito, di consultazioni esterne e deliberazioni interne che ha coinvolto numerosi leader sia dentro che fuori dell’organizzazione.

In questo periodo abbiamo avuto il privilegio di poter incontrare in forma privata il Segretario di Stato John Kerry prima, e il Sottosegretario di Stato Wendy Sherman poi, i quali hanno entrambi visitato la nostra sede di New York. Abbiamo anche avuto l’opportunità di parlare con membri del Congresso sia democratici che repubblicani, con diplomatici provenienti dall’Europa, Israele e dal mondo arabo, e con analisti di tutto rispetto ben informati sia sulla diplomazia nucleare che sulle questioni collegate all’Iran. Abbiamo inoltre partecipato ai colloqui che si sono svolti a Washington tra il presidente Barack Obama e il Segretario dell’Energia, Ernest Moniz. Siamo grati per tutte queste opportunità che abbiamo avuto.

Era chiaro fin dall’inizio che la questione iraniana non fosse affatto semplice. Al contrario, è stato uno dei temi politici più ricchi di conseguenze di questa generazione. Pertanto, non era possibile riassumerlo in un semplice pro o contro, o in poche e facili parole. Abbiamo ascoltato con attenzione le argomentazioni di coloro a favore dell’accordo, che hanno affermato, tra l’altro, che il percorso dell’Iran verso un ordigno nucleare sarebbe rimasto bloccato per almeno 10-15 anni; che l’Iran avrebbe utilizzato il flusso di danaro proveniente dallo scongelamento delle attività finanziare e la fine delle sanzioni in gran parte per uso domestico; che il Medio Oriente non sarebbe stato testimone dello spettro della proliferazione nucleare; che il regime di ispezione e verifica sarebbe stato il più invadente possibile e che l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) sarebbe all’altezza del compito, tra cui l’accertarsi dei possibili aspetti militari del programma nucleare dell’Iran in passato; e che forse l’Iran, con il tempo, potrebbe aprirsi a un cambiamento positivo e ad una maggiore cooperazione. Abbiamo anche ascoltato chi si opponeva all’accordo affermando, tra le altre cose, che questo accordo nella migliore delle ipotesi ritarda - ma non smantella - le infrastrutture nucleari dell’Iran; che ha creato di fatto un percorso legittimo per l’Iran di emergere come uno stato sull’orlo del nucleare, anche se non ha mai violato l’accordo; che almeno una parte dei nuovi fondi verrebbero utilizzati dall’Iran per alimentare ulteriormente il terrorismo e l’instabilità in Medio Oriente e non solo; che gli alleati dell’America nella regione sono rimasti profondamente turbati dall’accordo e delle sue implicazioni più ampie; e che c’erano dubbi circa la capacità dell’Iran di ingannare la comunità internazionale, come era successo in passato a Natanz ed a Fordow, come avevano fatto anche la Siria e la Corea del Nord.

Al termine di tutte queste deliberazioni, la leadership dell’Ajc ha concluso, con una maggioranza schiacciante, di doversi opporre a questo accordo. Per quanto rispettiamo i membri del P5 + 1 guidato dagli Stati Uniti, che hanno preso parte a faticosi negoziati per raggiungere un accordo dopo anni di trattative, che hanno dovuto affrontare numerose sfide con l’Iran dovendo anche - non va dimenticato - gestire le complesse relazioni all’interno del gruppo stesso, ci sono troppi rischi, troppe preoccupazioni, troppe ambiguità per poter dare il nostro supporto. Abbandonando la posizione negoziale precedente, e cioè quella di cancellare le sanzioni in cambio dello smantellamento dell’infrastruttura nucleare iraniana, accontentandosi invece di ciò che è essenzialmente solo un blocco temporaneo del programma nucleare, il P5 + 1 ha confermato il futuro status dell’Iran quale Stato sull’orlo del nucleare, cosa che lo stesso presidente Obama ha ammesso durante un’intervista.

Data la natura del regime iraniano e l’ideologia che lo definisce, l’Ajc non può accettare questa prospettiva. È molto inquietante, crea un pericoloso precedente, e rischia addirittura di precipitare, da parte dei vicini comprensibilmente preoccupati, ricerche volte a raggiungere loro stessi capacità nucleari, o perlomeno nell’immediato, a ottenere armi convenzionali ultramoderne, aggiungendo nuove minacce alla regione più volatile e piena di armamenti al mondo. Di certo, tutto questo non può essere negli interessi della sicurezza nazionale degli Usa nel lungo termine.

Non solo: lo scongelamento dei beni iraniani e l’eliminazione delle sanzioni in tempi relativamente brevi innescheranno sicuramente molte visite a Teheran, come già evidenziato dal desiderio del vice cancelliere e ministro dell’Economia tedesco Sigmar Gabriel di essere tra i primi. Inoltre, il fatto che il divieto di fornire armi all’Iran termini entro cinque anni, e quello sulla tecnologia missilistica - che aiuterebbe il programma iraniano di missili balistici intercontinentali - entro otto, porterà enormi benefici al regime - e senza nessuna richiesta che in cambio l’Iran modifichi il suo atteggiamento destabilizzante e pericoloso, tra cui ricordiamo le frequenti richieste di “Morte all’America e Israele”, e le sue ambizioni egemoniche in Iraq, Siria, Libano, Bahrein e Yemen. L’Ajc non può accettare neanche questa prospettiva.

I sostenitori dell’accordo ci hanno detto che l’unica alternativa a questa operazione è la guerra. Con tutto il rispetto, noi non siamo d’accordo. Non siamo a favore della guerra con l’Iran, né abbiamo mai auspicato l’uso della forza, anche se abbiamo sempre creduto in una opzione militare credibile quale modo di convincere l’Iran della nostra serietà di intenti. Ma fino a poco tempo fa, i negoziatori del P5 + 1 dicevano: “L’alternativa a un brutto accordo è nessun accordo”. Che cosa è successo a questa affermazione, e perché è improvvisamente cambiata? Siamo consapevoli che opporsi a questo accordo solleva questioni importanti per il futuro a cui oggi nessuno può rispondere con certezza, e riteniamo che, di fronte a una forte leadership americana, prima o poi l’Iran troverebbe nel proprio interesse tornare al tavolo dei negoziati. Ma sappiamo con maggiore certezza che questo accordo pone domande ancora più inquietanti sul futuro.

Pertanto, l’Ajc si oppone l’accordo e invita i membri del Congresso a fare lo stesso. Allo stesso tempo, vogliamo aggiungere due cose. In primo luogo, ci rendiamo conto che i nervi sono a fior di pelle da entrambe le sponde del dibattito, ma ciò non dovrebbe essere una scusa per giustificare attacchi personali o dichiarazioni infiammatorie che non hanno riscontro nei fatti, sia che provengano dai sostenitori o dagli oppositori dell’accordo. Ciò che serve è un dibattito in piena regola e nel reciproco rispetto, non accuse ad hominem.

E in secondo luogo, è nell’interesse strategico americano, ora più che mai, mantenere i più stretti legami possibili con i nostri alleati di lunga data nella regione, tra cui Israele, Egitto, Giordania, ed i membri del Consiglio di cooperazione del Golfo. La loro geografia, che è immutabile, li pone in prima linea. Le loro continue preoccupazioni politiche e di sicurezza - a volte espresse pubblicamente, a volte in privato - devono essere valutate con attenzione, sia ora che in futuro. Hanno bisogno di noi, come anche noi abbiamo bisogno di loro.

 

(*) Direttore esecutivo dell’American Jewish Committee

 

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:10