
Ha una lunga gestazione la Nona Sinfonia: la prima idea di musicare il coro An die Freude di Friedrich von Schiller, a Beethoven viene negli anni giovanili di Bonn; nel 1814 il progetto viene nuovamente ripreso sotto forma di una Ouverture con coro finale; diventa poi l’Ouverture in do maggiore zur Namensfeier op.115 per sola orchestra. Ancora tre anni: nel 1817, nel quaderno degli schizzi, accanto al materiale per la Sonata in si bemolle maggiore per pianoforte, op.106, si trovano spunti tematici poi utilizzati per i primi due movimenti della Nona. Nel 1822 Beethoven inizia la composizione della Sinfonia. In un primo tempo il titolo è: Sinfonie allemand e già prevede il corale finale. Tutto il 1823 è dedicato alla composizione della Nona, che alla fine dell'anno è completamente schizzata. L’anno successivo Beethoven mette in partitura la Sinfonia. Più di dieci anni, insomma. L’Inno alla Gioia è considerato un grandissimo messaggio di pace e di fratellanza; Beethoven vuole formulare un aperto invito alla fratellanza universale: e proprio per rendere tale messaggio il più chiaro possibile decide di far cantare nel finale un testo del poeta tedesco a lui contemporaneo, Schiller, appunto. An die Freude è una lirica nella quale la gioia è intesa non certo come semplice spensieratezza e allegria, ma come risultato a cui l’uomo giunge quando si libera dal male, dall’odio e dalla cattiveria. Proprio per questa esortazione alla fraterna amicizia la melodia su cui viene intonato questo Inno alla gioia viene assunta come Inno europeo. L’Unione europea nel 1986 ne fa il suo inno. Ascoltiamolo, questo “Inno alla Gioia”. Fa bene. Serve, in tempi come questi, dove tocca ascoltare e patire certi discorsi, dei tanti Matteo Salvini, più numerosi di quanto si creda, più pericolosi di quanto appaiano.
Quell’Inno viene da lontano, come abbiamo visto; e anche l’ideale che ora vorrebbe rappresentare, ha una sua antica storia. Possiamo dire che è anche nato in una piccola isola del mar Tirreno, tra Lazio e Campania? Si che lo si può dire. Quell’isola si chiama Ventotene; è lì che l’imperatore Augusto esilia la figlia Giulia, e l’imperatore Tiberio fa morire di fame la nipote Agrippina. A Ventotene, che non era, come oggi, un luogo di villeggiatura, Mussolini confina gli antifascisti. Tra loro ci sono Sandro Pertini, Umberto Terracini, Ernesto Rossi. Altiero Spinelli, che ha già trascorso dieci anni nelle galere fasciste, vi sbarca nel luglio del 1939, due mesi prima dell’inizio della seconda guerra mondiale. Lasciamogli la parola: “Grazie al fatto che Ernesto poteva corrispondere con Luigi Einaudi, abbiamo ricevuto da lui alcune pubblicazioni dei federalisti inglesi, c’era un movimento federalista animato da un lord inglese che si chiamava Lothian, intellettualmente una produzione molto buona, abbiamo cominciato a vedere che c’era chi pensava al problema dell’unità europea”.
Tutta l’Europa, ad eccezione della Gran Bretagna, è in fiamme, oppressa da nazisti e fascisti; e il radicale Rossi e l’ex comunista Spinelli in quell’isoletta pensano agli Stati Uniti d’Europa, scrivono quello che poi tutti conosceranno come il “Manifesto di Ventotene”. Una follia, a prima vista. Si vedrà poi che quel modo di pensare al possibile “domani” era anche il modo migliore, più efficace per pensare a quell’oggi che li aveva incarcerati e relegati al confino. “Abbiamo messo in piedi questo “Manifesto” dove ci sono due idee fondamentali - dice Spinelli - una è che la Federazione Europea non è una cosa che verrà, perché c’è una certa logica… La Federazione Europea è una costruzione che gli uomini devono fare, ed è una cosa della nostra epoca”…
Non sono i soli: a Monaco, in Germania, ci sono gli studenti nonviolenti della “Rosa Bianca”, che propugnano un’ideale federalista, e vengono per questo massacrati da Hitler e dai nazisti; in Francia c’è un prestigioso capo della Resistenza, Jean Moulin, anche lui viene ucciso dai nazisti, dopo essere stato tradito; e autonomamente, ad analoghe conclusioni giunge anche Ignazio Silone, esule a Zurigo, in Svizzera, con le sue “Nuove Edizioni di Capolago”.
Si ritroveranno, Rossi, Spinelli, Silone e tanti altri, finita la guerra nella comune battaglia federalista, e assieme al futuro Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, danno voce a una radicale critica del dogma della sovranità dello Stato, in una prospettiva federalista e democratica. In quel “Manifesto” elaborato da Rossi e Spinelli a Ventotene ci sono le basi dell’Europa unita: un’Europa diversa da quella di oggi, accusata con qualche fondamento di essere stata realizzata in modo parziale, burocratica, inefficace. L’Europa del Manifesto di Ventotene propugna ideali di unificazione in senso federale, fondati sui concetti di pace e libertà kantiana, e sulle teorie istituzionali dei federalisti americani. Gli estensori del Manifesto di Ventotene, e in seguito Konrad Adenauer, Joseph Beck, Johan Willem Beyen, Winston Churchill, Alcide De Gasperi, Walter Hallstein, Sicco Mansholt, Jean Monnet, Robert Schuman, Paul-Henri Spaak e gli altri “visionari” che hanno ispirato l’Unione europea, sostengono la necessità di una forza politica esterna ai partiti tradizionali, inevitabilmente legati alla lotta politica nazionale, e per questo incapaci di rispondere efficacemente alle sfide dei nuovi tempi: è il Movimento Federalista Europeo, attivissimo negli anni Cinquanta (Angiolo Bandinelli potrebbe e dovrebbe parlarne per ore, di questa sua esperienza). Pensano sì a una moneta unica, ma anche a una comune difesa, a un sistema fiscale omogeneo, a un Parlamento europeo con effettivi poteri.
Oggi nessuno di quei “padri fondatori” è vivo; chissà cosa direbbero di quel che accade in questi giorni turbolenti, dove più che la grande patria europea, per usare un’efficace espressione di Marco Pannella, sembra affermarsi l’Europa delle piccole patrie. Resta comunque più che mai attuale quella loro idea concreta e vitale di Europa unita e federalista: il sogno, la visione di quei pionieri che per primi la concepirono è quanto di più attuale e necessario. La sintesi di tutto è nelle parole di Spinelli: “La vera divisione è tra quelle che dobbiamo chiamare le forze del progresso e quelle della conservazione non è più quella tradizionale, ma sarà tra quelli che vogliono adoperare quel tanto di potere che posseggono per promuovere la costruzione europea, e quelli che vogliono adoperarlo per restaurare invece il vecchio”.
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 18:03