Dopo Atene un’altra Europa

Siamo a due giorni dalla scadenza dell’ennesimo ultimatum che i leader europei hanno intimato al ribelle Tsipras e non si vede luce in fondo al pozzo di questa bizzarra crisi greca. Non si tratta di rifare la contabilità dei torti di ciascuno. Quel che preme comprendere è se vi sia o meno la volontà di risolvere la situazione. A pelle, la sensazione è che ognuna delle parti in gioco miri a tenere il punto piuttosto che aprirsi a soluzioni praticabili. Tutto questo è molto stupido e pericoloso. Dimostra in modo incontrovertibile che la temperie occidentale sia aggravata dalla presenza sulla scena di personale politico mediocre che non è all’altezza del mandato ricevuto. Non c’è in giro stoffa sufficiente per autentici statisti. In compenso imperversano ragionieri, tribuni, lobbisti, periti agrari e chiacchieroni di varia statura. La qualità individuale dei protagonisti non è elemento secondario.

Se oggi l’Unione europea assomiglia a una combriccola di usurai e meno a un consesso di illuminati lo si deve al fatto che i popoli dei singoli paesi siano stati indotti a pensare all’Ue in termini esclusivamente utilitaristici, di mercato. L’idea che potesse svilupparsi nel tempo un idem sentire identitario per tutti gli abitanti del vecchio continente è rimasta nelle carte del Manifesto di Ventotene e, forse, nella mente di qualche grande politico del passato. Qualcuno si duole che i Jean Monnet, gli Adenauer, gli Schuman e i De Gasperi avessero molto più senso d’appartenenza alla casa comune europea di quanto l’abbiano gli attuali capi di governo. È una legittima doglianza che non deve stupirci. Il mondo dei padri fondatori della Comunità europea sentiva bruciare ancora nella carne viva il fuoco della guerra. Le nuove classi dirigenti di quel passato atroce, che non hanno vissuto in prima persona, non avvertono il peso. La retorica e l’ipocrisia con le quali si pronuncia l’abusata promessa “mai più la guerra” è l’indicatore che segna l’odierna distanza da una storia archiviata nelle coscienze.

In questo processo di rimozione ha certamente avuto parte la fine della guerra fredda. La condizione psicologica di sospensione nella quale si era vissuto in Europa dal secondo dopoguerra fino alla caduta del Muro, da una parte e dall’altra della cortina di ferro, aveva rinfocolato la paura per un ritorno all’indietro, per un ripiombare nelle tenebre. La condizione di sicurezza, garantita dall’Unione, dai rischi di conflitti interni ha però ridato fiato a egoismi nazionalistici mai sopiti. A proposito della crisi ellenica, il discorso che si sente ripetere con maggiore frequenza è: perché tedeschi, finlandesi e polacchi dovrebbero pagare con i loro soldi gli sperperi dei greci? Allora, perché non domandarsi se sia giusto che gli italiani perdano il diritto di commerciare con la Russia per fare un favore ai lituani e agli estoni che si sentono minacciati da Mosca.

Ciò che occorre per rimettere il treno europeo sui binari giusti è un colpo d’ala della politica alta, quella che sa compiere scelte impegnative in momenti difficili. Perché non pensare, come suggerisce Paolo Savona dalle pagine di “MilanoFinanza”, a una legislazione valida erga omnes piuttosto che intestardirsi sul caso greco? Savona propone di “agire dal lato della domanda aggregata e dell’occupazione collegando la politica di Quantitative easing della Bce alla realizzazione del Piano Juncker, avvalendosi della collaborazione della Bei”. Quindi, battere la stagnazione, anche dell’economia greca, con la contromisura degli investimenti pilotati dal centro verso la periferia, reindirizzando l’immensa massa di risparmio accumulato dai paesi più ricchi. Non sarebbe questo il modo migliore per fare “più Europa” anziché rischiare di somigliare a quel tal “gentiluomo” della mala romana che, intercettato dal Ros, al telefono diceva “al dieci matina… portame i sordi se no t’ammazzo a te e a tutti i tu figli, a pezzo de merda”?

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:13