I piani jihadisti e il tempo della verità

Vi è un sottile filo rosso che lega lo sventato attacco terrorista a due chiese in Francia, al massacro dei cristiani in Pakistan e in altre parti del mondo, all’uccisione la scorsa settimana di migranti clandestini cristiani scaraventati in mare da un barcone per mano di un gruppo di musulmani, alle posizioni del Vaticano contrarie al blocco navale a ridosso delle acque libiche: è la guerra dell’integralismo islamico all’Occidente cristiano. Possiamo continuare a chiudere gli occhi ma la realtà è più testarda di qualsiasi contorsione pacifista.

Nel mondo, sotto le bandiere della Jihād, è in atto una concentrazione strategica di gruppi rivoluzionari che recano medesime istanze politiche, sociali e religiose. Quelli che i nostri media identificano genericamente come cellule terroriste sono in realtà aggregazioni di combattenti la cui visione egemonica si materializza nell’annientamento del nemico, impersonato dall’identità cristiana. Un futuro integralmente islamizzato è solo la risposta a un disagio profondo del quale si ritiene primo responsabile quel medesimo mondo condannato alla distruzione. Esiste un qualche fondato diritto dei nemici a valersi sulle nostre vite? Sebbene il sistema di potere, politico-economico, creato e sviluppato dall’Occidente progredito abbia non poche responsabilità nello sfruttamento brutale di immense aree del pianeta, non è accettabile l’idea che si debba pagare oggi, tutto in una volta, il conto per gli errori commessi dalle generazioni che ci hanno preceduto.

Ammettiamo pure, come ossessivamente vanno ripetendo le litanie dei terzomondisti, che le potenze coloniali abbiano armato la mano dell’odio degli sfruttati, nondimeno è impensabile farci paralizzare dai sensi di colpa per quel che è stato ieri. Se c’è da discutere di un mondo migliore, più equilibrato e sostenibile, è giusto provarci e ancor più giusto è fare autocritica perché soprusi non abbiano a ripetersi. Ma se fare i conti col passato deve significare arrendersi a chi progetti di mettere l’Occidente a ferro e fuoco, allora no! I buoni propositi finiscono nel cassetto e si mette mano alle armi. Non si aspetta la decimazione, si inizia a colpire e anche duramente: infliggere perdite per non essere annientati fa parte delle regole del gioco. Pazienza per l’ipocrisia delle anime belle che parlano di un mondo a colori. Per il momento bisogna tenersi una sola sfumatura di grigio.

Questo potrebbe voler dire trasformare l’Europa in una fortezza? Certamente! E chi lo dice che sia un fatto negativo? Le solite quinte colonne del terzomondismo? Se ne facciano una ragione: la nostra gente, le nostre comunità, per quanto consolidate nello spirito profondo del cristianesimo, non hanno alcuna voglia di farsi colonizzare dai nemici. Fanno un bel dire le autorità ecclesiastiche a sostenere che bisogna porgere l’altra guancia. A furia di prendere sberle si rischia di non avere più una faccia da mostrare. È giunto il momento di alzare la guardia perché siamo sotto attacco e, per i nostri nemici, qualsiasi momento può essere quello buono per sferrare il colpo del ko. Le generazioni di questo tempo si sono ritrovate a essere figlie dell’11 settembre. Vi è consapevolezza del pericolo.

Dal momento che vi sono masse di individui abbarbicate alla speranza di vedere rasi al suolo i luoghi sacri dell’identità dei popoli dell’Occidente, spetta soltanto a noi decidere se sia giusto lasciarglielo fare o se, invece, sia un imperativo civile riscoprire, nella pienezza del suo significato, il diritto a contrastare il nemico con ogni mezzo. È tempo di piantarla con la storiella che siamo tutti buoni, tutti uguali e tutti fratelli. È tempo che anche Abele riveda le sue priorità in previsione di una chiacchierata di diverso tenore con Caino.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:13