Renzi e il cerino libico

Non immaginavamo che l’ammiraglio statunitense James Stavridis, comandante delle forze Nato al tempo della guerra di Libia del 2011, fosse un iscritto della Lega. A sentirgli dire che Roma è il simbolo più potente tra quelli odiati dallo Stato islamico per cui bisogna difendere l’Italia, ci viene in mente Salvini. La situazione è grave e non può essere sottovalutata oltre. Anche Matteo Renzi inizia a capirlo. Per questa ragione il Premier sta facendo il giro delle “7 chiese” per convincere i player planetari a farsi carico del dossier libico. Con scarso successo. Perché? È semplice comprenderlo, è questione di ordine di grandezza dei problemi: ciò che a noi italiani appare come un dramma gigantesco, altrove è percepito con minore intensità. Gli unici ad avere un occhio attento sulla crisi sono la Francia e la Gran Bretagna ma solo per concrete ragioni commerciali. La Libia resta principalmente una questione italiana. Tuttavia, la strategia scelta da Renzi è debole. Il governo italiano subordina qualsiasi iniziativa alle decisioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Allora, campa cavallo.

La mediazione alla quale sta lavorando l’inviato speciale delle Nazioni Unite, Bernardino Leon, non darà i frutti sperati perché la distanza tra i due blocchi in lotta non è facilmente riducibile. Nel teatro libico si fronteggiano i gruppi fedeli al governo legittimo di Abdullah Al-Thani, insediato a Tobruk, e la coalizione islamica “Alba libica”. Quest’ultima sostiene il governo presieduto da Omar Al-Hassi, trinceratosi a Tripoli. Alle spalle di entrambi i fronti si muovono gli interessi delle potenze regionali del mondo arabo che di fatto si stanno combattendo per interposta fazione. Arabia Saudita, Egitto ed Emirati da una parte; Qatar, Sudan, Turchia dall’altra. Il fatto che sulla scena sia comparsa una terza forza: lo Stato Islamico del califfo Al-Baghdadi, per i paesi sponsor della guerra civile rappresenta un problema minore rispetto all’obiettivo prioritario della vittoria degli uni sugli altri.

Paradossalmente, per la maggior parte dei Paesi in gioco l’Is rappresenta una sorta di comune denominatore visto che sia il Qatar, sia l’Arabia Saudita, sia la Turchia hanno aiutato la nascita e il radicamento di questa pericolosa forma d’integralismo jihadista. La partita libica si svolge per intero nell’ambito dell’universo politico-religioso sunnita. Ciò rende assai improbabile una soluzione negoziale promossa dall’esterno del mondo arabo. Ecco perché, prima che la situazione degeneri, l’Italia deve puntare i piedi a terra e intervenire con energia per mettere fine al conflitto interno rivendicando il diritto che le proviene dalla storia dei rapporti bilaterali e dalla geografia, vista la contiguità territoriale con il campo di battaglia. Non deve farlo da sola.

La presenza di Renzi, la scorsa settimana alla conferenza di Sharm el Sheikh sullo sviluppo economico dell’Egitto è stata una scelta opportuna. Non altrettanto si può dire dell’ostinazione con la quale il nostro premier spera di convincere gli Stati Uniti a prendere l’iniziativa. Obama non è il “key player” di cui parla Renzi. Se il presidente Usa avesse voluto davvero ricoprire quel ruolo non avrebbe mandato il suo Segretario di Stato, John Kerry, a trattare con il presidente egiziano Al-Sisi a mani vuote. Non avrebbe bloccato nuovamente la fornitura dei cacciabombardieri F-16 di cui l’aviazione egiziana ha bisogno per colpire le postazioni dell’Is in Libia.

Probabilmente Barack Obama tiene la mano sul freno delle forniture militari all’Egitto per non scontentare Turchia e Qatar, suoi alleati privilegiati. Figurarsi se ha voglia di bagnarsi i piedi nel pantano libico. Comunque la si giri, la chiave di volta della crisi è nelle mani italiane. Renzi se ne faccia una ragione. La posta in palio è terribile. Non si tratta di qualche barcone di clandestini in più da soccorrere, è in gioco la sicurezza del Paese. Proprio come ha detto il “leghista” Stavridis.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 18:31