Più di un commiato   ora serve un indirizzo

C’è grande attesa per il discorso di fine d’anno di Giorgio Napolitano. Perché è l’ultima tappa di un percorso personale che si è dipanato per gran parte della storia dell’Italia repubblicana e che ha consentito al suo protagonista di raggiungere il massimo vertice istituzionale e di mantenerlo per otto anni di seguito. Ma soprattutto perché segna la fine di una fase politica che è iniziata prima del settennato allungato di Napolitano, ma che ha raggiunto il suo culmine proprio durante gli anni in cui l’attuale capo dello Stato si è trovato a vivere nelle stanze del Quirinale.

È facile immaginare che nel discorso di Napolitano non ci sarà alcun riferimento a questa fase politica. Se lo facesse, il Presidente della Repubblica dovrebbe fatalmente riconoscere la natura particolare della fase politica di cui è stato l’ultimo e più significativo interprete. E Napolitano ha sempre tenuto a sottolineare di aver gestito il mandato presidenziale senza mai uscire dall’alveo fissato dalle norme e dalla prassi costituzionale.

Ma anche se nel discorso non ci sarà traccia della fase politica segnata da un presidenzialismo materiale innestato su un parlamentarismo formale, tutti ascolteranno l’ultimo messaggio televisivo dell’attuale capo dello Stato nella convinzione di assistere alla fine di un periodo particolare della storia non solo dell’Italia repubblicana ma dell’intero stato unitario.

Un bilancio obiettivo di questo periodo potrà essere compiuto solo in sede storica. Ma al momento si può tranquillamente sostenere che con il commiato di Napolitano si chiude la fase della supplenza della politica da parte del Presidente della Repubblica. In futuro sarà possibile stabilire se questa supplenza è stata causata dalla necessità di colmare un vuoto o dalla scelta di andare oltre il proprio mandato presidenziale, approfittando della debolezza del Parlamento e delle forze politiche tradizionali.

Adesso, però, ci si può legittimamente chiedere se l’uscita di scena di Napolitano segnerà la fine dell’anomalia del presidenzialismo di fatto o se, al contrario, chiuderà definitivamente il ciclo iniziato all’inizio degli anni Novanta e culminato con il ruolo determinante svolto dal Quirinale negli anni successivi all’uscita di Silvio Berlusconi da Palazzo Chigi.

La partita dell’elezione del successore di Napolitano si gioca attorno a questo interrogativo. Avremo un nuovo super-presidente che dall’altro del Quirinale indirizza e mantiene ferma la politica italiana all’interno della strada fissata dai grandi poteri europei? Si tornerà all’epoca dei “notai della Costituzione” contrari a qualsiasi ingerenza nella vita politica del Paese? O si arriverà ad una fase nuova e diversa segnata dalla fine del presidenzialismo di fatto e dall’avvento di un premierato non dichiarato ma fin troppo marcato?

A stare alle parole di Matteo Renzi sembrerebbe che i suoi nemici vogliano perpetuare la fase del super-presidente e che l’attuale Presidente del Consiglio sia invece ben deciso ad approfittare del voto quirinalizio per rafforzare il premierato già avviato. E se il commiato servisse a dare un indirizzo?

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:24