Lo Jobs Act elettorale   di Matteo Renzi

La tecnica goebbelsiana di Matteo Renzi, quella che lo spinge a ribadire più volte una bugia per trasformarla in verità, non regge sullo Jobs Act. La pseudo-riforma del lavoro varata dal Governo non riuscirà ad invertire la tendenza alla disoccupazione crescente in atto da troppi anni nel nostro Paese.

Ma il vero e più grave risultato negativo non è dato dalla certezza che con questa riforma del lavoro non ci sarà neppure un solo occupato in più. È la conferma, definitiva ed incontrovertibile, che il Pd di Renzi non differisce in nulla dal Pd della vecchia guardia rottamata e si preoccupa esclusivamente di difendere il proprio tradizionale terreno elettorale invece di affrontare con serietà e coraggio le cause della crisi che grava sulla società nazionale. Questa conferma è data dalla decisione di non applicare al settore pubblico la già contraddittoria e timida normativa sui licenziamenti adottata per il settore privato.

Renzi ha corretto l’intransigenza della Madia e di Poletti annunciando che la decisione ultima spetterà al Parlamento. Ma la sua è la solita operazione tattica volta a dare un contentino al Ncd ed a Svolta Civica in vista del prossimo voto per il successore di Giorgio Napolitano. Passata l’emergenza-Quirinale e finito il timore dei franchi tiratori, si tornerà al punto di partenza, cioè al Pd compatto sulla difesa del pubblico a scapito del privato.

L’intoccabilità del pubblico non nasce dall’esistenza di condizioni diverse tra i dipendenti dei due settori. L’affermazione della ministra Madia secondo cui il pubblico è intoccabile perché le assunzioni sono state fatte per concorso è una sciocchezza addirittura imbarazzante. E non dipende neppure dalla preoccupazione della tensione sociale che si potrebbe scatenare se il principio della intoccabilità del posto pubblico venisse minimamente intaccato.

Se il governo del Pd avesse preso atto che tra le cause della crisi c’è l’elefantiaca espansione del sistema burocratico-assistenziale pubblico o ruotante comunque attorno alle strutture dello Stato, non sarebbe stato difficile correggere le condizioni diverse tra dipendenti pubblici e privati e neppure rassicurare il mondo pubblico con un programma almeno decennale di revisione e di snellimento del sistema.

Ma il governo del Pd non può e non vuole toccare il mostro che ha contribuito a costruire e che rappresenta il fattore principale di tutte le sue fortune elettorali. Chi aveva sperato che Renzi potesse compiere una svolta di questo tipo si era illuso. Il Presidente del Consiglio si scontra con la sinistra politica e sociale non per ragioni di strategia anticrisi, ma per una semplice questione di potere. Sulla difesa dell’elettorato tradizionale del Pd, quello che nel corso dei decenni la sinistra ha progressivamente incistato sul tronco statale vetero-democristiano, Renzi è perfettamente d’accordo con chi ha deciso di rottamare e di emarginare dai vertici del potere politico. Per questo ha deciso di scaricare il peso della crisi su quel settore privato che, proprio perché si era in parte illuso di aver trovato un nuovo interlocutore, non garantisce eccessiva tenuta elettorale. E ha compiuto la scelta ottusamente conservatrice di mantenere intatti i privilegi che aggravano le cause della crisi dei propri clientes, divenuti maggioritari in tutte le articolazioni delle strutture statali.

È probabile che nel compiere una scelta del genere Renzi stia pensando sempre alla possibilità di andare ad elezioni anticipate a breve. Ma, quale che sia la sua motivazione, è certo che punire il privato e salvare il pubblico in maniera così eclatante apre una spaccatura profonda nella società italiana. Una spaccatura che potrebbe provocare conseguenze pesanti. Anche in caso di elezioni a maggio!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:20