
Il Fatto Quotidiano ha dedicato un lungo articolo al presunto “veto garantista” posto dalla segretaria dei Radicali Italiani Rita Bernardini, dal direttore de “Il Garantista” Piero Sansonetti, dall’avvocato Enzo Vitale e da me, nella qualità di presidente del Tribunale Dreyfus e direttore de “L’Opinione delle liberta”, alla messa in onda su Rai 3 della docu-fiction dedicata al caso del chirurgo Brega Massone, in attesa di appello alla prima sentenza di condanna all’ergastolo.
Questo articolo mi ha suscitato dispiacere e soprattutto una forte inquietudine. Il dispiacere non è dipeso tanto dalla scoperta di essere considerato un “accumulatore seriale di cariche” per trovarmi io nella condizione, oltre che di presidente del Tribunale Dreyfus, anche di presidente del Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga nonché direttore de “L’Opinione delle libertà”. Al contrario, la definizione mi ha fatto decisamente ridere. Perché a tutte queste presunte cariche non corrispondono prebende e redditi da casta ma spese personali, passione e, per quanto riguarda il Parco Gran Sasso-Laga, una retribuzione talmente modesta da non ripagare neppure i costi che sostengo per svolgere la mia attività.
Il dispiacere e l’inquietudine crescente, al contrario, sono legate alla constatazione che il pregiudizio giustizialista si è talmente radicato all’interno del mondo dell’informazione da aver di fatto abrogato anche le più elementari garanzie individuali fissate dalla Costituzione. Prima fra tutte quella della presunzione d’innocenza, che è la base di ogni forma di civiltà giuridica. “Il Fatto”, che peraltro svolge legittimamente ed apertamente la sua funzione di sostenitore del pregiudizio forcaiolo, è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno che riguarda la quasi totalità del mondo dell’informazione, in particolare delle leve più giovani del giornalismo italiano. Queste ultime sono ingenuamente e sinceramente convinte che la presunzione d’innocenza sia un’invenzione causidica tesa ad intralciare il trionfo della moralità e della legalità. E applicano con l’entusiasmo e la ferocia dei neofiti, ignari che il giornalismo è anche l’arte del dubbio, il principio della presunzione di colpevolezza. Quello che dall’Inquisizione ai totalitarismi moderni stabilisce che chi rivendica la propria innocenza e non confessa i propri peccati è sicuramente ed a priori colpevole.
Si tratta di una sub-cultura dominante nei media nazionali incapace di comprendere che la richiesta di non condizionare preventivamente il giudizio di una giuria popolare con docu-fiction colpevoliste non rappresenta una forma di innocentismo, ma un semplice richiamo ad uno dei più banali fondamenti dello stato di diritto. Ma, soprattutto, incapace di rendersi conto che un Paese in cui i cittadini sono solo dei soggetti in attesa di giudizio, in quanto tutti presunti colpevoli in attesa di prova a carico, è destinato ad incarcerarsi ad un futuro neppure da sudditi ma da servi.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:26