
Se a suo tempo fosse stata realizzata una riforma istituzionale in senso presidenzialista, il problema della successione di Giorgio Napolitano al Quirinale sarebbe stato risolto dagli elettori. Nessuno avrebbe potuto compiere giochi di sorta in Parlamento. Ma tutte le forze politiche avrebbero dovuto giocare allo scoperto presentando ai cittadini italiani i propri candidati alla prima carica della Repubblica. Il passaggio tra Napolitano ed il suo successore sarebbe avvenuto al termine di una campagna elettorale che sarebbe stata sicuramente molto combattuta, ma che avrebbe avuto un esito destinato a rimettere in sintonia la società civile con le sue istituzioni.
Lo stesso vale se a suo tempo fosse stata realizzata una riforma destinata ad introdurre nel nostro ordinamento un Esecutivo rafforzato sotto la forma del cosiddetto premierato. Il futuro capo dello Stato non avrebbe potuto essere altro che un personaggio espresso direttamente dal Premier e non avrebbe dovuto in alcun caso svolgere in maniera surrettizia e non codificata dalle norme costituzionali quelle funzioni di esecutivo superiore eseguite con minore o maggiore correttezza ed efficacia dai vari Scalfaro, Ciampi e Napolitano. A votare per il nuovo inquilino del Colle non sarebbero stati i cittadini, ma i componenti del Parlamento. Ma l’esistenza di un premierato solido, espressione di una forte legittimazione popolare, avrebbe garantito un andamento tranquillo e non devastante del voto per il Quirinale.
Le riforme, sia quella per il presidenzialismo che quella destinata ad instaurare il premierato, non ci sono state. Negli ultimi anni si è instaurato un presidenzialismo di fatto attraverso il sempre più accentuato ruolo politico svolto da Napolitano. Ma il sistema è formalmente rimasto quello parlamentare. Al tempo stesso, da quando Matteo Renzi è diventato Presidente del Consiglio, accanto al presidenzialismo di fatto si è creato anche un premierato non di diritto. E ora, al momento delle dimissioni di Napolitano e della successiva elezione del suo successore, ci troveremo ad assistere ad una singolare vicenda in cui un Premier che si considera forte tenterà di far eleggere un capo dello Stato non in grado di fargli ombra ed un Parlamento, dove non mancano i nemici di Renzi, in cui si moltiplicheranno i tentativi di sgambettare il Premier ed eleggere un personaggio in grado di metterlo in riga.
L’unica alternativa al Vietnam parlamentare, cui la conclusione del primo settennato di Napolitano è stata una avvisaglia fin troppo indicativa, è data da una intesa tra le forze politiche maggiori su un nome che non sia né il servo di Renzi né il suo potenziale bastonatore. Ma questa intesa, simile a quelle che portarono alle elezioni di gran parte dei vecchi presidenti della Repubblica, è difficile da realizzare in un Parlamento dove Pd e Forza Italia sono segnate da profonde fratture interne, il Movimento Cinque Stelle è ad un passo dall’implosione ed il resto delle forze politiche aspettano il voto del Quirinale per imporre la propria presenza trattando al meglio la destinazione dei propri voti.
Reggerà il Patto del Nazareno a queste tensioni? Questa è la domanda che si pone oggi e che è destinata a dominare la scena politica fino al momento del voto per il Quirinale. Una domanda che però ha già una risposta ben precisa. Il Patto del Nazareno potrà reggere solo se il Premier Renzi eviterà di comportarsi da dominatore assoluto e si piegherà ad un compromesso onorevole ed accettabile rinunciando ad imporre “patti leonini” di sorta. Non sarà facile trovare questo compromesso. Perché la vocazione autoritaria del Premier è fin troppo accentuata. Ma se si vuole che il Paese esca indenne dal prossimo passaggio politico non c’è altra strada. O meglio, una strada ci sarebbe. Quella di convincere Napolitano a sciogliere il Parlamento ed aspettare le nuove Camere prima di dare le dimissioni. Ma si tratta di una strada al momento impraticabile!
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:25