La Grande Guerra, la risposta ad Olmi

Prima ti ignorano, poi ti diffamano, infine vinci. Una volta ribaltata, la famosa frase di Gandhi diventa la perfetta fotografia di un 4 novembre che per il nostro Paese prima ha segnato la data della vittoria nella Prima guerra mondiale, poi è stata diffamata come inutile strage provocata da criminali imbecilli e infine, come è capitato l’altro giorno, è stata totalmente ignorata tranne qualche spazzo residuo di diffamazione da parte dei combattenti e reduci del pacifismo ad oltranza. Come l’affermazione , dal suo letto d’ospedale ed in occasione della presentazione del suo ultimo film “Torneranno i prati”, del regista Ermanno Olmi secondo cui i seicentomila caduti della Grande guerra sono morti per niente.

Questo fenomeno del ribaltamento della frase di Gandhi applicata all’anniversario cancellato del 4 novembre è irreversibile. Perché la cultura dominante d’ispirazione antirisorgimentale ha lavorato a fondo nel secondo dopoguerra italiano e ha prodotto una condanna ed una rimozione di una parte della storia del Paese che appaiono assolutamente immodificabili. Certo, si può tentare di ricordare che alle radici di quel conflitto non ci furono solo la criminalità e l’imbecillità delle cricche dominanti, ma anche le passioni genuine di settori importanti e significativi di una popolazione che riflettevano i valori e la cultura prevalente del tempo. Ma il risultato di andare controcorrente è solo quello di raccogliere irrisione e silenzio da parte di una società che è educata al ripudio più assoluto ed intransigente di quella parte di storia nazionale che inizia agli albori dell’Ottocento e finisce nella seconda metà del secolo scorso.

È inutile, allora, reagire alla rimozione riaffermando che, con tutti i suoi orrori ed errori, la Prima guerra mondiale completò quel processo di unificazione nazionale che aveva entusiasmato le generazioni succedutesi dal secolo precedente ad allora. Si rischia di venire esposti alla gogna per eccesso di retorica patriottarda.

Eppure, quel 4 novembre così tanto disprezzato, svilito e denigrato ha un valore straordinariamente attuale. Perché, se segna il momento in cui un Paese che aveva trovato la sua unità da poco più di cinquant’anni riesce a superare la massima emergenza della guerra più devastante combattuta fino a quel tempo, costituisce un esempio prezioso ed indispensabile per il tempo presente.

L’esempio non è solo quello della collaborazione tra le forze politiche diverse in nome di un moderno “né aderire, né sabotare” che si trasforma in una “unione sacra” contro l’emergenza più acuta. Dal lontano 1917 ad oggi troppo spesso si è fatto ricorso alla retorica dell’unità e della solidarietà in nome dell’emergenza per non correre il rischio di cadere in una banalità ripetitiva e controproducente. L’esempio vero è quello molto più individuale di chi diventa consapevole che la vita lo pone di fronte ad una scelta determinante per il futuro proprio, dei propri figli e delle generazioni che verranno. E decide se battersi per cambiare il corso degli eventi o arrendersi ad essi subendone tutte le conseguenze.

Il lessico usato (battersi, arrendersi) è volutamente quello bellico. Perché la crisi odierna presenta aspetti peggiori di quelli che caratterizzano una guerra e per uscirne non bastano la speranza, le buone intenzioni, la preghiera o la lamentele, ci vuole la consapevolezza che la salvezza non si trova nella fuga ma nella determinazione a battersi. Per che cosa? Ad Olmi, che si è chiesto retoricamente per quale motivo siano morti i ragazzi di allora, c’è da dare una sola risposta. Sono morti per il loro Paese. E se oggi non si capisce che per uscire dalla crisi si deve avere quella stessa passione e quella stessa capacità di sacrificio, è meglio arrendersi ed aspettare che l’inevitabile declino segni il futuro dell’Italia e delle sue generazioni future.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:25