Il caso Stefano Cucchi, il problema inquirenti

Per chi ha dato vita al Tribunale Dreyfus, la richiesta della riapertura delle indagini e della revisione del processo sul caso Cucchi non può non essere considerata legittima e sacrosanta. Il processo Dreyfus è storicamente il simbolo dei casi di malagiustizia corretti grazie alla mobilitazione dell’opinione pubblica compiuta dagli organi d’informazione indignati per l’eccezionale gravità della vicenda. Ed il caso Cucchi sembra essere una perfetta riproposizione di quella vicenda antica rimasta un esempio anche per il presente.

Ma non serve limitarsi ad imitare Emile Zola per mettersi la coscienza a posto in una storia in cui all’evidente colpevolezza dello Stato non corrisponde una altrettanta evidente responsabilità personale dei rappresentanti dello Stato stesso. O meglio, può servire solo a consentire agli “Zola de noantri” di sfruttare a fini commerciali la morte di Cucchi. Invece, la vicenda del ragazzo romano, entrato vivo in una struttura dello Stato ed uscitone solo da morto, va utilizzata non solo per sollecitare una revisione delle indagini e del processo chiesta dalla famiglia, ma anche per sollevare uno dei problemi meno considerati ma sempre più evidenti ed inquietanti della giustizia italiana. Si tratta del rapporto squilibrato tra una fase inquirente troppo spesso segnata da carenze e condizionata dalle pressioni mediatiche e una fase processuale che non può non agire sulla base delle risultanze delle inchieste ed è costretta ad amministrare la giustizia con le distorsioni imposte dalle carenze e dai condizionamenti mediatici precedenti.

Nel caso Cucchi questo squilibrio appare più che evidente. I magistrati che hanno giudicato nei due gradi di giudizio non hanno potuto far altro che applicare la legge sulla base delle risultanze dell’inchiesta. Le assoluzioni non sono frutto di capriccio, di pregiudizio o di un tentativo di coprire le responsabilità dello Stato ma rispecchiano perfettamente le indicazioni proveniente dalla fase inquirente. La conclusione del processo non può non essere il frutto della sua impostazione, che è data da indagini che troppo spesso sono carenti, deviate, subordinate alle pressioni imposte da una società della comunicazione e dell’immagine permeata di una cultura giustizialista che non vuole la giustizia giusta ma pretende solo quella sommaria perché più eclatante ed utile dal punto di vista del consenso e del consumo. In questa chiave, il caso Cucchi è solo l’ultimo anello in ordine di tempo di una catena di sentenze contraddittorie e controverse che sembrano il frutto di fasi processuali bizzarre e scorrette ma che in realtà sono solo la conseguenza di indagini condotte male e concluse peggio.

A condurre le indagini sono i Pubblici ministeri e ad emanare le sentenze sono i giudici. Ma la considerazione non serve a riproporre la necessità di fissare una sacrosanta distinzione tra le carriere e le funzioni delle due diverse categorie di magistrati o a riaprire l’ormai storica polemica nei confronti dei Pm accusati di essere il punto di maggiore debolezza del sistema giudiziario nazionale. Serve soprattutto a sollevare una questione che prima della Legge Vassalli era risolta dalla distinzione tra la polizia che seguiva le indagini ed i giudici che le istruivano. E che è rappresentata dalla preparazione professionale di chi oggi non si limita ad istruire le indagini condotte dagli organi professionalmente addestrate a farlo, ma le conduce in prima persona pur avendo alle spalle una preparazione professionale rivolta al giudizio invece che alla inchiesta.

Nessuno chiede il ritorno al passato, ma è chiaro che in una qualsiasi riforma della giustizia degna di questo nome il problema dell’addestramento dei Pm alla fase delle indagini deve essere affrontato e risolto. Al momento, però, non c’è traccia della questione nella riforma Orlando!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:25