
Non ci vuole molta fantasia nel capire che l’ultima sortita del Presidente del Senato, Pietro Grasso, quella in cui ha chiesto di equiparare il reato di corruzione a quello di associazione mafiosa, rappresenta un siluro esplosivo indirizzato verso la definizione di poteri speciali per il Commissario Anticorruzione, Raffaele Cantone.
Se si decide di affrontare il fenomeno della corruzione nello stesso modo in cui si affronta il fenomeno mafioso, non c’è alcun bisogno di costituire una nuova struttura dedicata alla lotta alla corruzione e riempirla di competenze e di poteri. Basta attivare la Dia, attribuirle la competenza sui reati emersi dal caso Expo e dal caso Mose e trasformare il Procuratore Nazionale Antimafia nel comandante in capo della guerra da portare alle due gravissime emergenze che affliggono il Paese, quella della criminalità dei “colletti bianchi” e quella della criminalità dei cosiddetti “uomini d’onore”.
Grasso è stato per lunghissimo tempo Procuratore Nazionale Antimafia. E non si capisce bene se abbia lanciato questa proposta per nostalgia, per fare un favore e dare una patata bollente all’attuale Procuratore Roberti o per fare un dispetto a Cantone. L’interrogativo va lasciato a chi si occupa di gossip. Non perché non sia interessante (il pettegolezzo è molte volte il sale delle notizie). Ma perché la proposta di Grasso, che non è un osservatore qualunque ma è la seconda carica dello Stato, esprime due indicazioni di segno inequivocabile. La prima è che una parte della magistratura, da cui Grasso proviene, vive molto male l’eventualità che il Governo attribuisca poteri particolari al Commissario Anticorruzione Cantone. E cerca di frenare in ogni modo (significativa la frenata in questo senso della scorsa settimana del vicepresidente del Csm, Vietti) la partenza con attribuzione di poteri effettivi al nuovo organismo.
Questa resistenza dipende dal timore che il supercommissario Cantone possa sconvolgere l’attuale sistema gerarchico della magistratura? O si vuole evitare che il supercommissario per la vicenda dell’Expo possa finire con il commissariare quella Procura di Milano che dopo vent’anni di pubbliche virtù ha messo in mostra ultimamente anche qualche vizio privato? La risposta agli interrogativi spetta a Matteo Renzi. Accerti e decida. Ma, nel farlo, il Presidente del Consiglio tenga conto anche della seconda indicazione, decisamente più importante della prima, contenuta nelle parole del Presidente del Senato. Nel proporre il passaggio della competenza sulla corruzione all’Antimafia, Grasso ha di fatto chiesto di applicare nei confronti del fenomeno corruttivo la stessa risposta emergenziale data a suo tempo al fenomeno mafioso. Cioè a delegare ad una speciale autorità giudiziaria fornita di strumenti e normative particolari e diverse da quelle normali il compito di fronteggiare il malaffare che si forma tra politica ed economia.
Ma la società politica e quella civile non possono essere equiparate alla o alle società criminali. E non perché al loro interno non siano presenti sacche di criminalità organizzata e spontanea che sia. Ma perché, a dispetto di quanto possa pensare un Presidente del Senato che alle spalle ha solo l’esperienza di magistrato emergenziale, società politica e società civile non sono una parte ma l’insieme della società nazionale. E porre l’intera società italiana sotto la cappa dell’emergenza e della magistratura Antimafia significa di fatto proclamare una sorta di stato d’assedio destinato non solo a compiere agli occhi del mondo una folle autocertificazione di “Stato canaglia e mafioso”, ma significa anche creare le condizioni per la paralisi definitiva della politica e dell’economia del Paese.
Nessuno si sogna di attribuire a Grasso velleità o idee dittatoriali. L’inesperienza politica lo spinge spesso a parlare un po’ a vanvera. Ma la sua proposta, qualunque sia stata la motivazione, porta inesorabilmente verso uno sbocco autoritario. E come tale va combattuta!
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 16:38