
L’esito dei ballottaggi nelle elezioni amministrative ha dimostrato che la disaffezione dei cittadini dalla vita pubblica è sempre più in crescita e che l’unico strumento per frenare questa spinta è favorire il ritorno ad un bipolarismo maturo.
Il clamoroso successo del Partito Democratico di Matteo Renzi alle recenti elezioni europee aveva indotto molti osservatori a stabilire che il tradizionale bipolarismo tra centrodestra e centrosinistra fosse ormai morto. E che al suo posto si fosse insediato un sistema ricalcato sul vecchio modello tolemaico della Prima Repubblica. Con un Pd trasformato in una nuova Dc e diventato asse inamovibile del quadro politico ed un Movimento Cinque Stelle diventato una sorta di redivivo Pci bloccato da una ritrovata conventio ad excludendum.
Ad alimentare questa convinzione erano stati soprattutto molti renziani di nuovo conio. Cioè tutti quelli che dopo aver guardato con sospetto e preoccupazione la parabola ascendente dell’ex sindaco di Firenze, si erano affrettati a saltare sul suo carro vincente ed a trasformarsi, per meglio accreditarsi presso il leader, come i più renziani tra i renziani. Di qui paginate e paginate di giornali, chilometri di austeri commenti, un’infinità di analisi apparentemente oggettive, per dimostrare che il vecchio schieramento di centrodestra era morto e sepolto e che il nuovo assetto politico del Paese era fondato sulla stabilità egemonica di Renzi e del suo partito e sulla presenza di una forza antisistema come il movimento grillino. Una forza che non avrebbe mai avuto la possibilità di andare al Governo e che avrebbe dovuto svolgere il ruolo paradossale di partito antisistema che, standone fuori, sorregge il sistema stesso.
I risultati del ballottaggio dimostrano che questa tesi, peraltro non condivisa dallo stesso Renzi il quale ha sempre auspicato il ritorno al bipolarismo classico, è del tutto infondata. Perché il Pd non ha sbancato come era nelle previsioni, ma ha subito una frenata significativa e qualche delusione in alcune città tradizionalmente “rosse”. Perché gli elettori del Movimento Cinque Stelle si sono dimostrati meno antisistema dei loro dirigenti. E, soprattutto, perché il ballottaggio ha dimostrato che dove il centrodestra è riuscito a camminare unito e non frazionato ha continuato a rappresentare l’alternativa democratica e di governo al Pd.
Per la cosiddetta area moderata, allora, la strada appare assolutamente segnata. Se non vogliono procedere ad un’auto-rottamazione, le sue diverse componenti non hanno altra possibilità che ridare vita ad uno schieramento unitario destinato a competere legittimamente con la sinistra e ad assicurare la stabilità del sistema fondato sulla democrazia dell’alternanza.
Per andare in questa direzione si può tranquillamente percorrere la strada imboccata da Silvio Berlusconi e da Matteo Salvini del recupero delle alleanze e degli accordi, magari federativi, tra forze diverse. Ma si può anche percorrere la scorciatoia della riforma della legge elettorale, quella su cui Renzi continua ad insistere con particolare vigore, che se ispirata al modello del bipolarismo tradizionale e maturo può convincere anche i più riluttanti al ritorno all’unità. Tutto, però, passa attraverso una condizione prioritaria. Quella che il partito più forte dell’area del centrodestra, cioè Forza Italia, risolva le questioni interne e ritrovi l’unità che è la condizione indispensabile per la leadership dell’area. C’è da augurarsi che l’auspicio si concretizzi al più presto. Il Paese non può attendere.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:26