Bollettini, Procure ed i diritti umani

Sono ormai giorni e giorni che le prime quattro o cinque pagine dei grandi quotidiani italiani si sono trasformate nei bollettini delle Procure di Milano e di Reggio Calabria. Colonne e colonne di resoconti dettagliati delle indagini che hanno portato in carcere alcuni vecchi faccendieri ed imprenditori a Milano per le tangenti dell’Expo e l’ex ministro Claudio Scajola e la moglie dell’armatore latitante Amedeo Matacena, Chiara Rizzo. E colonne e colonne di retroscena più o meno inquietanti, con qualche spruzzata adeguatamente pruriginosa, per accrescere l’interesse dei lettori ed aumentare l’indignazione per gli ennesimi scandali nazionali.

Non si tratta di una novità visto che ormai da più di vent’anni, cioè dal tempo della cosiddetta rivoluzione giudiziaria di “Mani Pulite”, i quotidiani ed in generale i media italiani si sono trasformati negli organi d’informazione delle Procure durante la fase iniziale di ogni inchiesta capace di colpire l’attenzione dell’opinione pubblica del Paese. Ma proprio perché il fenomeno dei media al servizio esclusivo dei pubblici ministeri non è nuovo ma ormai talmente stabilizzato da apparire quasi istituzionale, che va obbligatoriamente riproposta la denuncia di una patologia che provoca una distorsione gravissima del sistema della giustizia e dello Stato di diritto.

Il problema non è più il segreto istruttorio, che ormai è stato di fatto abolito. O le intercettazioni telefoniche, che sono diventate tutte ed indiscriminatamente a strascico, a dispetto di ogni tutela del diritto alla riservatezza di chi è estraneo alle inchieste. Il problema complessivo è rappresentato dalla trasformazione dei media da “cani da guardia” della democrazia a “braccio armato” della pubblica accusa. Con la conseguenza devastante che nella fase iniziale di qualsiasi inchiesta il braccio armato che promuove presso l’opinione pubblica la linea seguita nelle indagini dalla pubblica accusa, cancella di fatto ogni più minima garanzia per l’imputato. Quest’ultimo arriva alla fase processuale non solo dopo aver già espiato in carcere una parte della pena che non gli è stata ancora data, ma dopo essere stato ampiamente processato e condannato da un punto di vista sociale e morale prima ancora di essere giudicato colpevole da un punto di vista giudiziario.

Denunciare questa distorsione che azzera le garanzie dei cittadini nella fase istruttoria e le riconosce solo nella fase successiva del processo non significa prendere le difese di chi è indagato nello scandalo dell’Expo o nel caso Scajola-Matacena. Non si tratta di fare dell'innocentismo ultraminoritario da contrapporre al colpevolismo reso imperante dai media. Si tratta di denunciare una patologia che è diventata talmente marcata da trasformarsi addirittura in un tratto distintivo e caratterizzante del nostro sistema giudiziario. Al punto che ormai la paura per quella che un tempo veniva definita “gogna mediatica” e che sembrava riguardare solo la fascia dei politici e dei “colletti bianchi” corrotti, ora viene percepita come un pericolo scontato per qualsiasi cittadino abbia la sventura di finire, direttamente o indirettamente, nel tritacarne giudiziario.

I più preoccupati a denunciare e fare in modo di eliminare questa patologia dovrebbero essere quelli che la cavalcano. Cioè i magistrati ed i giornalisti. I primi perché il processo mediatico svilisce quello reale ed alimenta la sfiducia dell’opinione pubblica nei confronti di una giustizia percepita come ingiusta e di una categoria che la amministra considerata come deviata ed irresponsabile. I secondi perché l’accanimento ed il compiacimento con cui svolgono la funzione di braccio armato delle Procure trasforma il diritto all’informazione in un’inguaribile ed insopportabile lesione dei diritti umani dei cittadini da denunciare alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:26