
I tromboni del moralismo retorico e fasullo hanno già incominciato a suonare chiedendo nuove leggi e pene sempre più severe contro la corruzione che passa da un appalto all’altro senza soluzione di continuità e si concentra, come nell’Expò di Milano, dove c’è massima disponibilità di denaro per grandi iniziative pubbliche. Ma non servono nuove leggi e non servono inasprimenti di pene. E non servono neppure la lamentazione per l’eticità perduta in un Paese condannato all’eterno malaffare e l’appello ad una virtù conseguibile solo se applicata con il massimo ed indefettibile rigore.
Se c’è una conclusione da trarre dalla retata bipartisan contro gli appalti truccati dell’Expò milanese è che la strategia del ricorso alla moltiplicazione delle norme e delle sanzioni imposta dalla rivoluzione giudiziaria degli anni Novanta è miseramente fallita. Ora è evidente che non sono le “grida” anticorruzione e gli arzigogoli burocratici a creare comportamenti virtuosi. E non è la dichiarazione di emergenza giudiziaria perenne che elimina i fenomeni degenerativi prodotti dall’illegalità delle mafie di potere. Se dalla prima Tangentopoli si è passati alla seconda Tangentopoli nella città diventata da vent’anni simbolo del potere giudiziario e della risposta giudiziaria all’immoralità, vuol dire che l’idea di rivoltare il calzino italiano con il ferro della sola magistratura si è rivelata sbagliata. E che se si vuole effettivamente incidere sul cancro corruttivo che devasta il Paese bisogna partire non dalla retorica dell’etica astratta, ma da una corretta e realistica diagnosi della malattia da estirpare. La Tangentopoli di oggi è completamente diversa da quella di ieri. I nomi possono essere gli stessi. Ma il fenomeno è radicalmente cambiato. Perché se allora le tangenti erano lo strumento di finanziamento illecito dei partiti, oggi che i partiti di massa sono scomparsi, le tangenti sono strumenti di arricchimento per quei singoli e quei gruppi di potere che sono riusciti ad annidiarsi nei gangli decisionali del sistema pubblico.
La moltiplicazione delle norme e dei regolamenti e l’estrema burocratizzazione del sistema degli appalti ha creato una casta di “mandarini” che, anche sulla base delle esperienze fatte nel passato, è la sola in grado di gestire i flussi di denaro pubblico. Perché i nomi sono sempre gli stessi? Perché i meccanismi sono stati raddoppiati, intrecciati, allargati ma hanno conservato il loro impianto di fondo. La risposta esclusivamente giudiziaria data dalla politica alla corruzione ha lasciato intatte, e anzi ha addirittura accentuato le cause dei fenomeni corruttivi. Al punto da scoprire, nella città simbolo di quella rivoluzione giudiziaria che avrebbe dovuto eliminare con il ferro rovente della legalità virtuosa la tendenza al peccato del nostro Paese, che il peccato non è stato affatto eliminato. E anzi, nella mutazione genetica subita, è più concentrato e pericoloso di prima.
Bisogna prendere atto, allora, che per combattere i fenomeni di corruzione non è più applicabile il metodo di moltiplicare le leggi e le normative burocratiche scaricando sulla magistratura il compito di farle rispettare in nome della pubblica virtù. Va seguito il metodo esattamente contrario. Cioè quello della semplificazione delle norme, della sburocratizzazione degli apparati e della trasformazione dei tanti gangli decisionali in pochi centri di responsabilità su cui poter far esercitare, da una magistratura finalmente riformata, il massimo del controllo.
Contro la corruzione pubblica, in sostanza, ci vuole uno Stato più snello gestito non dai “mandarini” o dai titolari della virtù, ma da soggetti responsabili destinati a rendere conto del loro operato ai cittadini.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:27