E così Pierferdinando Casini ha saggiamente rotto il fronte delle resistenze dei partiti minori sulla legge elettorale riconoscendo che il ritorno al proporzionalismo della Prima Repubblica è impraticabile e accettando l’inevitabile avvio del processo del bipolarismo in cui i partiti minori saranno costretti ad entrare in coalizioni sul modello europeo. Sull’altro lato della barricata restano tuttavia ancora asserragliati i partitini da prefisso telefonico che seguono l’unico assioma accettabile, quello secondo cui la sola via per garantire contemporaneamente governabilità al Paese e rappresentatività a loro stessi sia vedersi riconosciuto l’ingresso autonomo in Parlamento.
Agitare questo stendardo, come prevedibilmente faranno fino al termine della discussione sulla legge elettorale, significa però piegare la formazione dell’Esecutivo alla strada obbligata delle larghe intese garantendosi la forza contrattuale e di vincolo. È unicamente questa la ragione di tanta insistenza nel contrastare la prospettiva di entrare in una coalizione e vedere diminuita la propria forza di condizionamento sull’azione de Governo. Giorni fa, ad “Agorà”, Michele Boldrin lo ha dimostrato in modo adamantino scagliando dardi contro la legge elettorale firmata Renzi- Berlusconi, accusata di avere come unico obiettivo quello di tagliar fuori dal Parlamento i partiti più piccoli. “Vi siete scordati cosa sia la democrazia – è l’accusa di Michele Boldrin – state facendo una legge che proibisce all’8% degli italiani di avere rappresentanti in Parlamento. È autoritarismo di due partiti”.
La ricetta di Boldrin va in tutt’altra direzione e rilancia la proposta di accordare alle formazioni politiche minori la soglia del 2% distribuendo i seggi della minoranza in modo proporzionale, nella convinzione (autentica?) che il premio di maggioranza sarebbe di per sé elemento a garanzia della governabilità. Una delle argomentazioni più insistenti tra gli sponsor della soglie al 2% è che con un tetto dell’8% in Parlamento non sarebbero entrate figure di spicco come Giorgio La Malfa e Marco Pannella. Non si comprende bene, innanzitutto, il perché la rappresentatività delle minoranze politiche non possa essere garantita all’interno dell’una o dell’altra coalizione in campo a seconda delle circostanze pattuendo prima con i partiti maggiori “ruoli” e candidature.
La governabilità, oltretutto, non è assicurata dal solo premio di maggioranza, perché se non c’è chi riesca a superare la soglia del 37 per cento e in assenza di ballottaggio, il premio non scatta per nessuno. Con la conseguenza che la stabilità è affidata ai governi di coalizione centrista, cioè alla riedizione delle larghe intese consociative. Non si può che tornare a ricordare cosa accadde con la legge “truffa” del ‘53. Convinto che la Democrazia Cristiana avrebbe potuto ottenere la maggioranza, De Gasperi scontò il mancato raggiungimento (per una manciata di voti) del premio di maggioranza con la fine della sua parabola politica, l’avvio della fase del centrosinistra e, successivamente, della democrazia consociativa tra Dc ed il Pci, incardinata su compromessi e condizionamenti e distribuzione a pioggia di risorse pubbliche con cui ognuno tutelava le proprie clientele.
Ora, accordando una soglia bassa per l’accesso dei partiti minori, che entrerebbero ognuno con la propria identità, il premio di maggioranza da solo non basterebbe a garantire la governabilità, se ad esso non si affiancasse il ballottaggio che decreta la coalizione vincitrice nel caso in cui alle elezioni nessuno dovesse prendere il 37 per cento. Prima o poi ci si deve confrontare con un congedo e congedarsi dalla logica del parlamentarismo proporzionalista non significa intonare il De profundis delle minoranze politiche, ma accettare che esse possano essere rappresentate anche all’interno degli schieramenti dei partiti. Privilegiare i piccoli significa, al contrario, subordinare ogni decisione al loro ricatto. Ne abbiamo, francamente, abbastanza.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:24