
Delle tante affermazioni fatte da Matteo Renzi nel suo discorso d’investitura a segretario del Partito Democratico, quella che più ha colpito ha riguardato la presunta investitura ad unici fattori di cambiamento che le primarie della sinistra avrebbero dato al Pd ed al suo nuovo leader. Secondo il successore di Guglielmo Epifani, infatti, i due milioni ed ottocentomila partecipanti al rito della sua consacrazione a segretario non solo avrebbero espresso un voto in favore del cambiamento nella politica italiana, ma avrebbero anche indicato con assoluta chiarezza che gli unici in grado di operare le trasformazioni necessarie al Paese sarebbero il Pd e la sua nuova guida.
La convinzione di Renzi, ovviamente, non si fonda sui numeri. I due milioni ed ottocentomila votanti della tonata attuale delle primarie sono nettamente inferiori a quelli che elessero alla segreteria Walter Veltroni e nominarono Romano Prodi candidato premier alle elezioni del 2006. Ma, soprattutto, rappresentano appena il cinque per cento della popolazione italiana e, a stare ai sondaggi, meno del trenta per cento dell’elettorato attivo. Il Pd, quindi, costituisce una minoranza. Che sarà attiva quanto si vuole sul terreno del rinnovamento, così come sostiene il sindaco di Firenze, ma che deve necessariamente fare i conti con la larga maggioranza che rappresenta il resto del Paese. Naturalmente la posizione di Renzi non stupisce affatto.
In essa c’è tutto l’antico pregiudizio di una sinistra passata nel tempo dal considerarsi l’avanguardia della classe operaia (e quindi del Paese) al concepirsi oggettivamente portata ad una vocazione maggioritaria. Cioè il pregiudizio fondato su una pretesa superiorità rispetto ad ogni altra formazione politica derivante dalla propria storia e della propria organizzazione. Ciò che stupisce, semmai, è che a rivendicare il pregiudizio secondo cui il Pd è l’unico titolato a perseguire il cambiamento è stato proprio il segretario che al centro del proprio programma presenta il sostanziale ripudio dei due fattori del pregiudizio sulla superiorità. È Renzi che ha fatto della rottamazione dei vecchi dirigenti (e quindi delle radici e della storia del partito) il centro del proprio programma.
Ed è sempre Renzi che accanto alla rottamazione degli uomini propone anche la rottamazione del modello-partito passando da quello di apparato a quello leggero, privo di strutture e nettamente separato dalle vecchie organizzazioni collaterali come la Cgil ed il mondo delle cooperative. La pretesa del nuovo segretario del Pd di essere stato investito in maniera esclusiva del compito di cambiare il Paese è dunque infondata. A voler cambiare il Paese sono in tanti ed il Partito Democratico, anche se sostenuto dal cinque per cento degli italiani, è uno solo di tutti questi tanti. In quanto tale non può pensare di poter imporre le proprie convinzioni sul cambiamento, ma deve necessariamente trovare intese e compromessi con le altre forze politiche.
Da questo punto di vista la prima uscita di Renzi segretario è apparsa preoccupante. Sbertucciare Giovanardi per bastonare ed umiliare le componenti d’ispirazione cattolica dell’area governativa, sfidare Grillo dandogli del “buffone”, ignorare Berlusconi considerandolo defunto e bocciare come eversivi i sintomi di disagio sociale che si manifestano nelle piazze italiane sembra indicare che Renzi non punti tanto al cambiamento quanto all’isolamento. Cioè a quella condizione da cui non si produce nulla per il Paese e solo danni per se stessi.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:52